Salute

Diagnosi, terapia, incertezza: il difficile dialogo medico-paziente

La comunicazione dell'accertamento di una patologia è sempre il momento drammatico del rapporto fra chi cura e chi è curato, in oncologia e non solo. Ancor di più quando c'è da prospettare soluzioni terapeutiche la cui riuscita non può essere mai garantita. Caligaris Cappio (Airc): «La cosa importante è far capire che c’è un percorso da fare insieme»

di Nicla Panciera

Non è una scienza esatta: la medicina è regno dell’incertezza e dell’interpretazione, aspetti che ne costituiscono insieme la forza e la debolezza. Dal quesito diagnostico alla progressione della malattia, fino ai dubbi sulla miglior terapia: è la più adeguata per quel singolo paziente? Come vi risponderà? E, ancora, quale altra nuova opzione terapeutica avremo da proporgli in seguito? L’incertezza in medicina non è destinata a ridursi, mancano corsi dedicati nel percorso di laurea ma le riflessioni su come gestirla e comunicarla sono ormai numerose. L’ultima in ordine di tempo è un editoriale The American Journal of Medicine.

L’incertezza? Aumenta e diminuisce

«L’avanzamento delle conoscenze rese possibili dalla ricerca di base e clinica, la maggior precisione diagnostica e l’istituzione di team multidisciplinari nella gestione del paziente hanno portato a una riduzione dell’incertezza; contemporaneamente, essa aumenta con il crescere delle opzioni terapeutiche e di evidenze non definitive che spesso alimentano la confusione» spiega Francesco Perrone, direttore della Struttura complessa di sperimentazioni cliniche dell’Istituto nazionale tumori "Pascale" di Napoli e presidente eletto di Associazione italiana di oncologia medica – Aiom.

Le zone di incertezza, quindi, ci sono e vanno conosciute e affrontate: «Il modo comunemente più accettato per farlo è la gestione dei casi clinici in team multidisciplinari: grazie al contributo di specialisti diversi, si migliorano la precisione diagnostica e l’accuratezza terapeutica e si riduce al minimo il rischio di errori interpretativi, legati proprio all’iperspecializzazione di ciascun membro del team». Il tumor board che discute i casi clinici è generalmente composto da oncologo medico, chirurgo, radiologo, genetista e biologo molecolare. «La profilazione molecolare dei tumori impone all’oncologo un nuovo linguaggio da apprendere. Nell’enorme mole di dati di genomica medica, forniti dall’innovazione tecnologica, si annida l’incertezza inevitabile, quella dovuta alla mancanza di conoscenze per stabilire, ad esempio, quale delle alterazioni evidenziate da una mappatura genetica completa è significativa e quale no. La diagnostica evoluta e multigenica avanza rapidamente e può diventare fonte di confusione e cattive interpretazioni» spiega Perrone. «C’è poi l’enorme problema di sapersi orientare tra le numerose opzioni terapeutiche a disposizione, competenze che non devono necessariamente essere apprese da tutti, a ogni livello, dal centro alla periferia dei piccoli centri». Un aspetto di organizzazione e coordinamento sanitario di cui dovrebbero occuparsi le reti oncologiche regionali.


Il rapporto medico-paziente

«Le reazioni a una diagnosi oncologica variano moltissimo da soggetto a soggetto. È esperienza comune a tutti noi quella di rimanere sorpresi della reazione di persone che conosciamo benissimo; è ancor più difficile per un clinico prevedere quella dei pazienti. C’è chi si aspetta risposte certe e inequivocabili, c’è chi vuole sapere il minimo dettaglio e, infine, c’è tutta la gamma tra questi due estremi» spiega Federico Caligaris Cappio, direttore scientifico di Airc, molto impegnata sul fronte della comunicazione e del coinvolgimento del paziente. Egli ricorda le sue prime esperienze negli Stati Uniti, dove lo stile di comunicazione era già diretto e trasparente, mentre in Italia «ancora si taceva al paziente leucemico in stadio avanzato la vera origine delle sue ricorrenti infezioni, rassicurandolo con un "vedrai che passa"». La rassicurazione oggi viene da altro: come dicono gli anglosassoni, to buy time che è quel «non lasciarsi andare per guadagnare tempo e attendere con fiducia i progressi della ricerca». Per Caligaris Cappio la soluzione è una franca condivisione delle informazioni a disposizione: «Ogni storia clinica è a sé, sarebbe un errore dare consigli categorici. Tuttavia, in generale, il medico dica con chiarezza quello che sa e ammetta con trasparenza le zone d’incertezza, che spesso è massima proprio alla diagnosi. La cosa importante è far capire che c’è un percorso da fare insieme».

L’ansia e i numeri

Rivolgersi al paziente, tutto orecchie, può essere alquanto difficile per chi non è preparato a comunicare il concetto di rischio. Inoltre, la comprensione e la percezione del paziente sono fortemente influenzate dalla diffusa scarsa dimestichezza con la matematica, la cosiddetta numeracy, ma anche dall’inevitabile ansia in cui si trova: la preoccupazione influisce sulle scelte dell’individuo, riducendo la sua tolleranza alle affermazioni ambigue e aumentando la sua tendenza a generalizzare.

Le strategie

Le strategie di comunicazione non sono solo frutto di esperienza clinica ma anche di ricerche pubblicate su riviste scientifiche. Ad esempio, comunicare in termini di proporzione (1 su 5) invece che di percentuale (20%) aiuta chi ha una scarsa numeracy ma aumenta la percezione del rischio in gioco. Anche formulare la proposta in termini di rischio relativo, di rischio assoluto o di number-to-treat influenza la decisione finale.

Chi ha scarsa competenza matematica subisce di più l’effetto framing, per cui conta non tanto quello che si dice ma il modo in cui lo si fa. L’uso di analogie può aiutare alcuni, ma finisce per confondere chi ha maggior dimestichezza con i numeri e si sente a suo agio tra statistiche e probabilità. Anche i termini opachi come “frequente”, “molto frequente”, possono confondere: meglio usare le cifre e prendersi il tempo di spiegarle.

Già, il tempo. Che manca per la carenza di medici e di personale sanitario di supporto. Eppure, «Il tempo di comunicazione è tempo di cura» ha ricordato Rossana Berardi dell’Università Politecnica Marche in occasione della Giornata mondiale contro il cancro. Secondo uno studio da lei coordinato e condotto in 35 strutture ospedaliere, per un totale di 1469 pazienti visitati, durante una visita oncologica 11 minuti vengono mediamente dedicati alla visita della persona e 16 minuti alla burocrazia come compilazione di moduli, prenotazione di appuntamenti, visite, esami, letti e poltrone per ricoveri o day hospital, prescrizioni, invio di e-mail.

Il camice bianco? È un essere umano

Lo specialista come si orienta tra incertezza, che è fonte di stress e burn-out soprattutto nei tirocinanti, e l’errore medico, sempre in agguato? Per l’editoriale del The American Journal of Medicine, è bene conoscere la propria reazione all’incertezza, che crea disagio in chiunque; dopodiché, individuarne la vera natura, perché tale sorta di classificazione pragmatica consente di fronteggiare al meglio l’incertezza non eliminabile; quindi, condividere con il paziente tanto l’incertezza insita nella situazione quanto il processo decisionale per giungere a una soluzione il più possibile condivisa sul da farsi, che tenga conto di tutto, anche dei valori e delle preferenze del paziente. Commenta Perrone: «Ogni clinico sviluppa il suo proprio registro comunicativo, che modula e adegua alla persona che ha davanti. Per alcuni, l’ammissione di dubbio e incertezza è sinonimo di incompetenza. Tuttavia, l’onestà intellettuale di definire e ammettere i margini di incertezza apre la strada a un dialogo spesso chiarificatore, che trasmette sia la padronanza della materia sia l’impegno verso il paziente, alimentando il rapporto di fiducia».

Quale specialista la sera, a casa, non si è mai interrogato sulla bontà di una decisione? In caso di dubbi è utile monitorare il paziente, anche una telefonata di follow up a pochi giorni dalla visita è di grande aiuto per orientare la direzione da seguire. Dopotutto, è la conclusione dell’editoriale, «il più grande conforto per un paziente è sentire che, indipendentemente dall'incertezza clinica, il suo medico sarà con lui, qualunque cosa gli porti il futuro». Senza dimenticare, ammonisce Caligaris Cappio, «quanto disse Norberto Bobbio: "Le parole sono pietre". Se le tiri, non sai mai dove andranno a finire».

La fato in apertura è del National Cancer Institute da Unsplash

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