Dopo Pisa

Di manganelli e di iniziazione alla democrazia (a cui abbiamo abdicato)

Assistiamo a una crescente intolleranza verso i punti di vista diversi, anche da parte delle istituzioni. La cultura della democrazia vive di ascolto delle posizioni differenti, ma anche la scuola - dice il pedagogista Daniele Novara - «da vent’anni non è più impegnata sul tema dell’educazione alla discussione e al confronto»

di Sara De Carli

Sit-in organizzato dalla Rete degli studenti medi del Lazio in seguito alle cariche della polizia a Pisa, foto Roberto Monaldo / LaPresse

Ascoltami vs ti ascolto. Sta nella distanza tra queste due posture il fare o non fare una iniziazione alla democrazia per i nostri ragazzi. «Se vuoi sostenere la democrazia, devi sostenere i processi di apprendimento per cui ci si ascolta reciprocamente nelle opinioni diverse. Le istituzioni – penso anche alla scuola – da anni invece dicono solo “ascoltami” e poi lamentano un “non mi ascolta” per giustificare azioni “correttive”. Ma l’istituzione democratica si fonda esattamente sull’azione contraria, sul “ti ascolto”»: Daniele Novara, pedagogista che oltre trent’anni mette al centro del suo lavoro l’educazione e la gestione dei conflitti, commenta così le manganellate dei poliziotti sugli studenti di Pisa. 

Che cosa si può dire?

«Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento»: sul fatto in sé le parole del Presidente Sergio Mattarella sono definitive, non hanno bisogno di chiose o sinossi. I manganelli sui ragazzi sono sempre un fallimento e «l’autorevolezza delle Forze dell’Ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni»: non c’è da aggiungere altro. La preoccupazione per una virata di autoritarismo c’è.

Che dire però del “prima”? Del fatto che i ragazzi non avevano comunicato i loro percorsi, che la manifestazione non era autorizzata… Che rispondere insomma, da educatori, all’obiezione che c’è modo e modo di manifestare e che non può valere tutto?

I poliziotti hanno detto che i ragazzi “non ci ascoltavano” e “non facevano quello che gli dicevamo”. È questo il punto che ci porta a fare una riflessione più ampia: non è solo un clima sociale ma anche le istituzioni stanno andando nella direzione di una gestione del dissenso che non è più fondata sul confronto tra posizioni differenti, ma che cerca un nemico. Assistiamo a una crescente intolleranza verso i punti di vista diversi. Anche le istituzioni dicono “ascoltami” e lamentano il “non mi ascolta”, tutto qui. Mentre invece la cultura della democrazia dinanzi a un problema è esprimere le proprie opinioni, confrontarsi sulle opinioni differenti e quindi decidere. L’istituzione democratica al cittadino dice l’opposto, dice “dimmi, io ti ascolto”. E favorisce fra i ragazzi, proprio nella loro formazione come cittadini, l’apprendimento delle modalità per esprimere punti di vista diversi e per confrontarsi sui punti di vista diversi.

Daniele Novara, pedagogista, fondatore del Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti

Chiama in causa la scuola? C’è oggettivamente anche un tema di una scuola che fa lezione di educazione civica, cittadinanza, rispetto dei diritti umani… che restano teoria davanti alle manganellate della polizia. 

Non è tanto questo, questo può dirlo superficialmente chi non conosce la scuola oppure chi vuole difenderla a priori. La verità è che da vent’anni la scuola non è più impegnata sul tema dell’educazione alla discussione e al confronto, sul versante del creare una cittadinanza nella logica democratica. Il dibattito maieutico per esempio è una tecnica che le scuole usavano tantissimo fino 10-15 anni fa: adesso non ne parla più nessuno. La scuola ha abbandonato completamente le forme pedagogiche di introduzione alla democrazia e alla libertà di espressione, con la discussione libera in classe o con quel confronto sui problemi che si faceva leggendo il giornale in classe: queste cose non le fa più nessuno. Che fine hanno fatto i libri preziosi di Clotilde Pontecorvo sulla discussione in classe? È un dispositivo del tutto abbandonato, che ha portato i ragazzi a non saper più discutere. C’è un’aporia sostanziale, la scuola agli alunni chiede ormai solo l’ascolto del docente, soprattutto alla secondaria di secondo grado. Il problema è questo: quale meccanismo di iniziazione alla democrazia attiviamo nella classe, se è vero che la scuola è il primo luogo di apprendimento della democrazia e la democrazia è proprio la gestione del conflitto senza violenza, attraverso una ritualizzazione in cui l’opinione divergente non viene vissuta come una minaccia da portare a un duello ma come elemento di ricchezza, da considerare per analizzare i vari punti di vista e poi arrivare a una decisione. È una cultura di gestione dei ragazzi che si sta creando, di cui fa parte anche l’orribile norma per cui il 5 in condotta dal prossimo anno porterà alla bocciatura: è quanto di più anti-pedagogico esista.

Perché?

Perché nella storia della pedagogia gli alunni difficili sono quelli che hanno permesso alla pedagogia di progredire, ti costringono a trovare metodi e dispositivi, a fare il meglio possibile per recuperarli. Se lo condanni con bocciatura, come se la scuola fosse istituto di correzione… Questa scelta significa guardare la scuola come luogo di espiazione della pena e non più come una comunità di apprendimento.

Sit-in organizzato dalla Rete degli studenti medi del Lazio in seguito alle cariche della polizia a Pisa, foto Roberto Monaldo / LaPresse

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