Welfare
Detenuti e fotoreporter Cartier Bresson fa scuola
Le grandi firme della fotografia si alternano nel laboratorio,uno spazio di libertà che ha cambiato la vita e ridato un futuro a decine di giovani
L?atelier è pieno di luce. E mentre due maghi dell?obiettivo come Henri Cartier-Bresson e Marc Riboud armeggiano tra pellicole e veline colorate, ognuna delle fotografie appese al muro racconta la sua storia. Quella di Ouassini che ha scelto una brandina grigia e fredda per parlare della sua solitudine, la grinta di Fabrice che segna un canestro in cortile, la timidezza di Nabil che si nasconde dietro a una maschera di cartapesta e la vita di tutti gli altri giovani detenuti tra i 13 e i 20 che vivono nel carcere di Fleurey-Merogis. L?istituto di pena che quattro anni fa, dopo qualche ritrosia, raccolse la sfida lanciata dal fotografo Klavdij Sluban: costruire un laboratorio fotografico all?interno del carcere e lasciare ai suoi giovani abitanti la possibilità di ritrarre con l?obiettivo ogni angolo della prigione. Un atelier inaugurato nel 1996 e da allora cuore pulsante e creativo del carcere. «L?unico luogo», hanno detto a Sluban molti dei ragazzi che decidono di fare gli ?aprendisti fotografi?, «in cui il tempo passa troppo velocemente». Quale miglior complimento per decretare il successo di un esperimento unico nel suo genere? Durante le sessioni fotografiche, che durano in media tre settimane, i detenuti possono scegliere di dedicarsi alla stampa delle fotografie, alle tecniche di ?scatto? o semplicemente ad ascoltare i consigli degli assi dell?obiettivo che si alternano nell?atelier. «Il nostro è uno scambio intenso e reciproco», racconta Henri Cartier Bresson, «io metto a disposizione esperienza ed energia e loro mi ricambiano con una grande passione e prospettive sempre nuove da cui considerare le cose». Da cui rivedere l?esperienza della reclusione che anche lui ha subito durante la guerra o da cui imparare a essere costruttivi quando se ne è andata anche l?ultima speranza. L?idea del laboratorio nasce proprio da questo. Dall? idea di utilizzare la fotografia come strumento per imparare a esprimere una libertà fisicamente legata, per preparasi alla vita fuori dal carcere ma anche per vivere la detenzione in maniera diversa. Scoprendo con occhio nuovi ogni suo aspetto e lasciando un?impronta diversa dalla violenza, le tacche che giorno dopo giorno aumentano sul muro o i graffiti. «Questi giovani ragazzi», racconta Klavdij Sluban, «hanno solo voglia di imparare ed essere responsabilizzati». Di preparasi a vivere in un mondo completamente diverso da quello che attualmente li circonda, con diverse regole e reazioni interpersonali. Quel mondo che spesso si intravvede negli oggetti fotografati: una rete metallica tra le cui trame spuntano mani che vorrebbero andare oltre, le ora di arrampicata libera in palestra, una finestra grigia cui ci si vorrebbe affacciare e molti altri ancora. Tutti lavori, testimonianze, che rimangono nell?atelier della prigione anche dopo che i loro autori se ne sono andati. Ma anche un?esperienza costruttiva, e piacevole da ricordare, tra le tante fatte in carcere.
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