Economia
Detenuti cucinano prodotti bio coltivati da migranti e disabili psichici
A Cremona nasce un nuovo progetto di filiera solidale a Chilometro Zero che sarà presentato nel salone “il BonTà” dall’11 a 14 novembre. A realizzarlo la Cooperativa Nazareth e la Casa Circondariale di Cremona
di Anna Spena
Questo è un progetto di filiera sociale a Chilometro Zero. Immaginate di mettere insieme tutte quelle persone che agli occhi dei più potrebbero sembrare “gli scarti della società”. Loro che, invece scarti non sono, insieme producono capolavori di bontà. L’azienda agricola è quella della Cooperativa Nazareth a Persico Dosimo, siamo alle porte di Cremona. I migranti insieme a disabili psichici coltivano ortaggi biologici che poi vengono trasformati in salse e conserve dai detenuti-chef della casa circondariale cittadina di Cà del Ferro.
Questo format “dalla terra alla tavola” sarà presentato domenica 13 novembre alle 14.30 a CremonaFiere nell'ambito della 13esima edizione de il BonTà, Salone delle eccellenze enogastronomiche artigianali e delle attrezzature professionali. I prodotti biologici, però, sono solo il risultato di un percorso molto più ampio fatto di accompagnamento all’autonomia di minori stranieri e persone con fragilità che camminano di pari passo insieme all’attività di formazione e riabilitazione sociale e lavorativa “I Buoni di Cà del Ferro” che si svolge all'interno del laboratorio di trasformazione agroalimentare ricavato di recente nella casa circondariale di Cremona.
«L'obiettivo è non solo offrire un nuovo approccio al lavoro e alla socializzazione, ma anche creare concrete opportunità lavorative», racconta Giusy Brignoli, tra i responsabili della Cooperativa Nazareth. «I prodotti, sia freschi sia trasformati, sono biologici certificati; inoltre, le persone che lavorano, anche se toccate da uno “svantaggio” di tipo sociale o fisico, vengono valorizzate nel loro saper fare liberando creatività ed energie».
«Come operatori penitenziari», aggiunge la direttrice di Cà del Ferro Maria Gabriella Lusi, «siamo convinti che il nostro lavoro possa essere efficace se riusciamo a guardare “dentro” la persona detenuta e, ad un tempo, a tutto ciò che la circonda. La società è nei nostri primari interessi perché attraverso processi rieducativi miriamo a restituire alla libertà persone non più portate a delinquere… magari perché hanno acquisito una competenza professionale in carcere da spendere dopo la pena, come nel nostro caso; magari perché, con la partecipazione del detenuto, il carcere ha saputo creare con il territorio il ponte di un efficace reinserimento».
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