Welfare
Detenuti a scuola di diversità
Reportage esclusivo di un'esperienza unica in Italia: dieci reclusi con pene più o meno lunghe escono dal carcere per frequentare un corso pilota gestito da volontari con disabilità ed esperti di pet e clown therapy. "Possono dimostrare alla società e a loro stessi che sono pronti a rifarsi una vita", spiega l'organizzatrice
Puoi scegliere di entrare in quell’aula a occhi chiusi. E allora li vedi così: chi ha commesso gravi delitti, chi reati minori. Senza via di redenzione. Oppure scegli di aprirlo, almeno un occhio. Allora la scena che ti si presenta davanti è da pelle d’oca: dieci persone, uomini, italiani ma non solo, di tutte le età (avanzata compresa) che ascoltano una donna che legge un libro. In sedia a rotelle, a causa di una malattia congenita. Il suo nome è Sara Ranieri, 40 anni, sta leggendo loro un passo emozionante del testo di Candido Cannavo ‘E li chiamano disabili’. Non vola una mosca, tutti attenti. Ma il meglio deve ancora venire. Dopo, a turno, leggono loro, i detenuti. Ecco che incespicano sulle parole, si fermano, ripartono, dicono di non vedere bene le parole, arrossiscono (e alcuni sono omoni dai quali non ti aspetteresti mai un cedimento emozionale) ma continuano, lottando contro una difficoltà nella lettura che vogliono superare a tutti i costi. Sara li guida, con piglio da esperta, lei che, oltre a essere stata consulente per alcuni Comuni del nord milanese in tema di barriere architettoniche, da decenni mette in atto iniziative di divulgazione sul mondo dei diversamente abili, da manifestazioni sportive a trasmissioni radiofoniche. “Sempre come volontaria, naturalmente”, precisa, dato che per lavoro è impiegata aziendale.
“Ma questa è una storia del tutto nuova anche per me, una sfida da vincere: erano tanti anni che volevo entrare nel mondo del carcere, finalmente ne ho l’occasione”, ci rivela la donna, che vive non lontana da Bollate, lo stesso paese che ospita l’istituto di pena modello d’Italia, per le sue politiche di reinserimento dei detenuti, a livello sociale e lavorativo. La conferma è che proprio da Bollate arrivano i dieci partecipanti al corso organizzato da Sara in collaborazione con la dirigenza del carcere, che è iniziato a ottobre e si tiene una sera alla settimana (otto incontri in tutto) in un’aula di una parrocchia del nord milanese. Il progetto è chiamato ‘La diversità per una vita diversa’ ed è basato su un’idea semplice quanto visionaria: “Vogliamo dare ai detenuti la possibilità di dimostrare alla società e a loro stessi che dopo un percorso di integrazione, sono pronti a rifarsi una vita, e a lavorare anche nel settore sociale”, spiega Sara. “Tutti hanno già alle spalle un percorso di riabilitazione e hanno scelto di partecipare in modo volontario: sono state talmente tante le candidature che questo sarà solo il primo di almeno due-tre scaglioni”.
Barriere architettoniche, Pet therapy, clownterapia, disabilità e sport sono il cuore degli argomenti che si trattano durante il corso. La serata in cui è presente chi scrive (e lo è in qualità di clown dottore volontario per l’Associazione Veronica Sacchi di Milano) è colma di contenuti: c’è la lettura del libro di Cannavò, ma c’è anche un giro del quartiere a individuare le barriere architettoniche, tutti dietro alla carrozzina di Sara (i reclusi presenti sono tutti ‘articolo 21’, ovvero in una fase di semilibertà del percorso di detenzione: possono muoversi in modo autonomo, l’unico vincolo è il tornare entro una certa ora in cella). Inoltre, è presente Enzo Panelli dell’associazione Dog4life, anch’egli in carrozzina con al fianco il proprio cane ammaestrato, per una dimostrazione di collaborazione uomo-animale che lascia tutti con la bocca aperta. Infine, è il turno di Roberto Pansardi, istruttore di Clownterapia che svela le tecniche di animazione e giocoleria a fini sociali e riabilitativi per le persone con handicap. I detenuti partecipano alle attività con interesse genuino e un mix di maldestria e autoironia che rende il corso un’iniziativa lodevole e disarmante. “Anche perché capisci che il percorso fatto negli anni da queste persone è passato attraverso l’assumersi le responsabilità del male che hanno fatto in passato e del dolore causato agli altri. Per poi ripartire da zero”. Grazie a chi guida il carcere di Bollate, che ha dato loro una seconda e ultima chance per ripianare il debito con la società.
“Viviamo in due ghetti, noi disabili e i detenuti”, sentenzia Sara, “avvicinandoci tiriamo fuori il meglio di noi stessi, e l’obiettivo è capire che per certi versi possiamo uscire dalle nostre gabbie mentali, talvolta. Il volontariato è lo strumento principe per superare ogni barriera”. I dieci partecipanti sembrano averlo già capito da soli: al terzo incontro “il loro gruppo ha già un nome, ‘Un sorriso nella città’, e il sito web, unsorrisonellacitta.altervista.org”, annuncia la donna, “fanno sul serio”. Chissà fin dove si spingeranno. “Lontano, se vogliono e la società li accoglie. Possono esserle molto utili, così come il volontariato e il lavoro nel sociale può far bene anche a loro stessi”. Pur nella consapevolezza, per alcuni, che l’ergastolo (il ‘fine pena mai’), rimarrà irreversibile.
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