Salute
Dell’Acqua sulla psichiatra uccisa: sicurezza è l’accoglienza
Paola Labriola, 53 anni, psichiatra, è stata uccisa con 25 coltellate da un paziente. Tutti invocano "sicurezza", ma propongono le soluzioni sbagliate. Intervista con Peppe Dell'Acqua, l'erede di Franco Basaglia
È successo ancora una volta. Una psichiatra è stata uccisa da un paziente, in un centro di salute mentale. È successo a Bari, nel quartiere Libertà. Lei si chiamava Paola Labriola, aveva 53 anni e due figli. Lui, un uomo con problemi di dipendenza da droghe e alcool, l’ha assassina con 30 coltellate. L’assessore Elena Gentile, il sindaco Michele Emiliano, la popolazione tutta hanno immediatamente chiesto più “sicurezza”. Per garantirla però hanno parlato di «corsi di difesa personale per le operatrici di sesso femminile», «assicurare la promiscuità di genere fra gli operatori», campanelli d’allarme negli uffici dei centri di salute mentale. Peppe Dell’Acqua è stato fino a poco più di un anno fa il Direttore dei servizi psichiatrici di Trieste, uno degli eredi di Basaglia. E oggi è triste al punto che, mentre parla al telefono, si commuove.
Come è potuto succedere?
Se intendi come mai un uomo uccide un altro uomo, non c’è risposta. Non siamo nati con Caino e Abele? Non amo cercare spiegazioni riduttive, non conosco i fatti. Tuttavia nelle circostanze attuali abbiamo sempre più persone che non ricevono risposte adeguate alla complessità del loro bisogno, ma solo risposte definite dagli stessi servizi che le danno. Tutti fanno qualcosa di parziale, il loro dovere, ma le persone restano con il loro problema. Vengono cioè “passate” da un servizio all’altro, in un circuito infernale che io chiamo “manicomio diffuso”. Voglio dire che Vincenzo Poliseno non è un uomo, di per sé, socialmente pericoloso, è un marginale ed emarginato, fracassato dalla sua storia, che ha trovato sempre risposte parziali, luoghi chiusi, che avrebbero dovuto essere i luoghi deputati a incontrarlo. Nel centro di salute mentale una delle stazioni di quell’infernale circuito, quella mattina, Paola Labriola l’ha accolto. Si batteva per determinare l’incontro e creare culture di accoglienza .
In un documento del Forum Salute Mentale parlate della solitudine degli operatori e del fatto che molti di voi «stanno gridando nel deserto». È questo il problema?
Anche Paola gridava nel deserto. Sicuramente il centro era sguarnito ma non perché mancasse una guardia giurata a sorvegliarlo, come adesso dicono in molti: perché Paola era sola lì dentro a fare accoglienza, un gesto e una pratica che invece i luoghi della “psichiatria”, che io mi ostino a chiamare i luoghi della cura, vanno perdendo. Lei invece ha accolto la persona, prima di definire la malattia, etichettare quel bisogno, in quella negoziazione accogliente che ciascuno di noi ha fatto mille volte e che quella mattina è stata tragicamente fatale. I servizi stanno drammaticamente perdendo la cultura e le pratiche dell’accoglienza. “La persona non la malattia”. Invece i servizi vedono diagnosi, sintomi, comportamenti. Sempre più le risposte si frammentano. I farmaci finiscono per dominare incontrastati il campo. E così facendo si impoveriscono, si indeboliscono.
L’assessore alla Salute della Puglia, Elena Gentile, ha detto: «Ridurremo i centri non per tagliare i servizi ma per implementarli, per fare in modo che dentro vi sia più personale». È una buona soluzione per rispondere alla solitudine degli operatori?
È il commento più sconcertante. La Puglia ha già avviato una politica di riordino demenziale dell’organizzazione della salute mentale: l’accorpamento dei servizi cui si riferisce l’assessore è una decisione di quel piano, già presa, per cui si passerà, per esempio, da tre centri di salute mentale, che oggi coprono una popolazione di 100/150mila persone ciascuno a uno solo. Certo che in quell’unico centro aumenterà il personale, ma perché spariscono gli altri due. Con un bacino d’utenza triplicato. Due dati: la Puglia spende due terzi delle risorse per la salute mentale per istituti, strutture e comunità sedicenti terapeutiche. Un’enormità di risorse buttate via in luoghi dove le persone vengono scaricate, ormai già morte alla vita, in attesa che la morte del corpo arrivi quanto prima. Sono attivissimi, e sempre pieni, dieci servizi psichiatrici ospedalieri chiusi, in cui si usa la contenzione: sono luoghi di esercizio e di scuola della violenza. Avrei voluto ascoltare una parola su questi luoghi blindati dove le persone, – i nostri concittadini, sindaco Emiliano! – urlano inascoltati la loro disperazione legati a letti luridi e indecenti. Sarebbe stato un bel modo per onorare l’inaccettabile morte di Paola, che per questo ha sempre lottato. Succedono cose analoghe ovunque, dalla Lombardia alla Sicilia, ma da quella regione e dal suo presidente che parla di Marco Cavallo e sempre mi commuove, mi sarei aspettato qualcosa di diverso. Ho sentito le autorità dire anche che queste persone vanno riportate in ospedale, in nome della sicurezza. Quanta tristezza…
Da più parti oggi infatti invoca «sicurezza» e si guarda con timore alla data della prossima chiusura degli Opg, rinviata al 1 aprile 2014. Come si garantisce la sicurezza ai cittadini?
L’abbassamento dei livelli di violenza si ottiene solo con l’accoglienza, non con telecamere, guardie giurate e campanelli d’allarme. Abbiamo ben capito che la malattia mentale non ha a che fare con la pericolosità. Quando le persone sono riconosciute per la loro singolare storia la pericolosità svanisce e si scoprono quante e quali circostanze possono produrre rischi e pericoli. In Italia abbiamo fatto a meno dei manicomi e, malgrado le nere previsioni degli uccelli del malaugurio, non abbiamo visto alcun aumento dei suicidi e ancor meno la crescita generalizzata della criminalità legata alla malattia mentale. Le persone chiedono aiuto bisbigliando, non urlando: tutte. I servizi nella comunità devono sapere ascoltare. Avere antenne sensibilissime.
Insisto, come si dà sicurezza?
Se si ragionasse e si volesse aprire occhi e orecchie, è sempre più evidente che non è appropriato che le leggi e le politiche di salute mentale siano determinate più dalle preoccupazioni connesse al rischio di comportamenti violenti che dalla necessità di disporre di risorse e trattamenti terapeutici e riabilitativi efficaci nella comunità. Servono servizi diffusi, in grado di incontrare le persone e i loro bisogni, nella comunità. Non sono più pensabili luoghi separati dove “mettere dentro”. Dietro le mura nascono mostri terribili e devastanti, sempre. Sicurezza è “abitare la soglia”, riempire di vita i servizi, dare faticosamente significato alla nostra vita. E alla vita tutti, nessuno esclcuso. Don Andrea Gallo che pure conosceva bene Marco Cavallo e tante volte è venuto a Trieste a parlare con lui nel parco di San Giovanni, in mezzo alle rose, ci ha lasciato queste semplici parole: «Io vedo che, quando allargo le braccia, i muri cadono. Accoglienza vuol dire costruire dei ponti e non dei muri».
Nella foto di copertina, una suggestiva opera del writer brasiliano Herbert Baglione nell’ex ospedale psichiatrico di Parma
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