Bell’idea! Facciamolo.
Prego, entra pure, vuoi un caffè?
Riparati sotto il mio ombrello, ti stai bagnando tutto.
Polizia! Aprite la porta!
Mamma, ho trovato questo gattino mezzo morto sul marciapiede.
Hai lucidato le posate? Vengono a cena i miei, sai che sono pignoli.
Grazie dei fiori, non dovevi disturbarti.
Sono sbarcati in 80 su un gommone, mezzi morti. Ora sono tutti nelle tende.
Per favore stringetevi là avanti, non si chiude la porta del tram.
L’accoglienza ha molte facce e molte schiene: davanti ha un aspetto, anche sempre uguale se siamo bravi a simulare, ma dietro può nascondere un piacere, un dovere, un valore, un fastidio, una necessità. Accogli un’idea, un amico, la suocera, la Finanza in casa, un regalo, una multa, un migrante, un autostoppista. Una sola parola per così tante relazioni diverse, per tutte queste dinamiche.
Quando siamo in viaggio, gli stranieri siamo noi e stranieri sono tutti quelli che incontriamo. Lo straniero gentile è quello che ci dà l’indicazione giusta, ci mostra la strada, ci offre un passaggio se siamo in panne, ci versa un tè. Non siamo abituati a lui. E non sappiamo come sdebitarci: regaliamo un oggetto, ci ripromettiamo di spedirgli qualcosa da casa, tentiamo di pagarlo.
Ecco la chiave, forse: l’accoglienza è uno scambio.
Gli antropologi lo hanno codificato, osservando le genti di tutto il mondo: il dovere di ospitalità (si tratti di hospes amico o di hostes nemico) è un rito che non finisce con il gesto di accogliere, ma con lo scambio successivo, foss’anche un semplice grazie. Se pensiamo all’accoglienza come un do ut des, come uno scambio che debba finire in pari, pensiamo a che cosa siamo disposti a dare e a cosa vogliamo in cambio. Tutto qui.
Questo potrebbe mutare la nostra prospettiva sul concetto di accoglienza e ospitalità e quindi il nostro modo di agire.
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