Politica

Def 2019, salario minimo legale: un’idea giusta, proposta nel modo sbagliato

L'intervento del presidente delle Acli: «Il progetto ha il merito di insistere su una questione centrale e critica del diritto del lavoro, ma ci sono alcuni nodi da affrontare. L’orientamento corretto dovrebbe essere quello di pensare ad un Salario minimo garantito non come misura unica ma in riferimento ai diversi CCNL, ancorando la retribuzione oraria alle dinamiche del comparto di riferimento e ad una evoluzione della contrattazione con un maggior valore erga omnes»

di Roberto Rossini

Le proposte di legge presentate in Senato (richiamata dal Ministero dell'Economia in sede di presentazione del Mef) e l’istruttoria avviata nel merito dalla Commissione Lavoro sul cosiddetto Salario minimo legale hanno il merito di insistere su una questione centrale e critica del diritto del lavoro e, perciò, dei diritti dei lavoratori, che la prolungata crisi economica e la sua dimensione globale non hanno fatto altro che amplificare: il mancato collegamento tra la prestazione lavorativa e il suo adeguato riconoscimento economico. In sé non si può che essere d’accordo perché si tratta di istituti che estendono, almeno nelle intenzioni, il perimetro dei diritti dei cittadini e dei lavoratori. Nel processo di valutazione però, questi provvedimenti non possono essere analizzati isolatamente ma bisogna guardare la storia e l’evoluzione del contesto economico, sociale e normativo in cui vengono inseriti.

Un primo problema, in ordine all’efficacia del Salario minimo legale, riguarda proprio il suo campo di applicazione: se si limitasse ai soli lavoratori subordinati, sarebbe poca cosa visto che nei loro riguardi più facile è la riconduzione – in via giurisprudenziale – al Salario minimo contrattuale. Assai meno facile è invece estenderlo ad altre categorie, se prima non si fa una puntuale ricognizione degli esclusi e non si rimuovono gli ostacoli normativi per definire una platea più vasta.

Il secondo problema è che potrebbe crearsi una forte interferenza tra Salario minimo legale – stabilito per legge – e Salario minimo contrattuale, determinato invece dalla contrattazione collettiva. La situazione attuale in Italia è che ci troviamo in un’emergenza di segno opposto: troppa contrattazione collettiva. Siamo passati in un decennio da 300 CCNL ad oltre 800, ed il motivo di questa proliferazione è che ogni CCNL fissa regole in parte diverse, anche sui Salari minimi contrattuali, tanto che molto spesso l’unico obiettivo da parte di un datore di lavoro è ricercare il contratto più conveniente, e più le imprese sono piccole, e meno i sindacati maggiori sono presenti, più vi è una ricaduta negativa in questo senso.

Anche il contesto normativo italiano è molto diverso da quello dei Paesi dove esiste il Salario minimo legale. In Italia non esistono forme di contrattazione collettiva di valore erga omnes, vale a dire che si applichino anche a chi non fa parte di una associazione firmataria del CCNL, non si applicano cioè se l’impresa non aderisce all’associazione sindacale dei datori di lavoro firmataria dell’accordo; se invece l’impresa aderisce, il singolo lavoratore è soggetto comunque al contratto anche nel caso in cui non faccia parte di alcun sindacato firmatario. E dunque, in caso di controversia relativa alla proporzionalità di una retribuzione, il giudice fa riferimento di solito all’articolo 36 della Costituzione, che stabilisce il diritto di un lavoratore ad una retribuzione dignitosa, non essendo nei fatti applicato dalle parti sociali il disposto dell’art. 39 della Costituzione che invece sancisce l’applicazione dei contratti collettivi erga omnes.

Tutte queste riflessioni di merito nascondono però anche un altro fatto: un provvedimento così rischia di mettere in discussione tutta un’architettura della contrattazione collettiva e delle relazioni industriali e sindacali.

E' prioritario evitare distonie con il Salario minimo contrattuale, facili se si legifera senza tenere conto della realtà particolare della contrattazione collettiva italiana. Un minimo di legge per sua natura è inferiore ai minimi stabiliti nei CCNL, in genere ponendosi tra il 50 ed il 60 per cento del minimo contrattuale mediano, che in Italia è attualmente stimabile in circa 12 euro netti per ora lavorata, ed infatti le proposte di legge in discussione parlano di 9 euro. Se l’operazione viene fatta con poca avvedutezza, è assai probabile che il Salario minimo schiacci verso il basso i minimi contrattuali, aprendo le porte a quel dumping retributivo ampliamente usato in questi anni dalle imprese italiane.

L’orientamento dovrebbe essere quello di pensare ad un Salario minimo garantito non come misura unica ma in riferimento ai diversi CCNL, ancorando la retribuzione oraria alle dinamiche del comparto di riferimento e ad una evoluzione della contrattazione con un maggior valore erga omnes.

Tutte queste riflessioni di merito nascondono però anche un altro fatto: un provvedimento così rischia di mettere in discussione tutta un’architettura della contrattazione collettiva e delle relazioni industriali e sindacali. Occorre capire che c’è anche questo in gioco, altrimenti la questione si riduce ad una qualche cifra più o meno lorda o a qualche meccanismo di determinazione monetaria. In realtà la politica deve avere il coraggio di aprire il dibattito con i soggetti sindacali e porre la questione della dignità di ogni lavoratore, anche di quelli non contrattualizzati collettivamente. Posta così, attraverso il ruolo di chi i lavoratori li rappresenta, sarebbe più facile discutere e valutare soluzioni che proteggano tutti.

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