…SEGUE
Le occasioni perdute del movimento cooperativo. A conclusioni non dissimili (quanti treni!) si può pervenire ragionando di movimento cooperativo, il quale non solo pare aver esaurito qualunque ruolo propulsivo rinunciando di fatto a proporsi come protagonista della qualificazione del tessuto produttivo, ma addirittura aggrava, a volte, il suo stato subalterno fino ad arrivare, nei settori di mia competenza (disinquinamento, eccetera) a favorire l’accesso sul mercato emiliano e nazionale di multinazionali, per di più in comparti in cui tali società spesso non hanno neppure esperienza pregressa; ciò anche sulla base di patti a dir poco leonini, che lasciano alle aziende cooperative solo opere civili, precludendo loro un qualche reale avanzamento sul piano di tecnologie e know-how.
I miei amici presidenti e dirigenti di imprese e consorzi cooperativi non me ne vorranno se esterno l’oggetto di un dibattito ormai in corso, tra di noi, da anni. Ritengo che tutto ciò (e il cahier des doléances potrebbe essere lunghissimo ed estremamente dettagliato) possa ricondursi ad un problema di fondo, e cioè alla fondamentale arretratezza e subalternità culturale che pare permeare l’azione dei gruppi dirigenti selezionati negli ultimi anni. Alla impreparazione nel fare fronte alle tematiche della transizione in atto (che porta al rincorrere affannosamente terreni e progetti proposti da altri) si abbina infatti, come corollario non secondario, una procedura di reclutamento/cooptazione dei gruppi dirigenti e di conduzione del dibattito interno che molti, ben più competenti di me, hanno già esaminato con grande approfondimento. Ciò che ho potuto osservare direttamente è come tali procedure abbiano portato alla diffusione di un atteggiamento, presente in molti dirigenti che mai hanno vissuto esperienze reali di direzione di movimenti di massa, secondo il quale la vera politica è solo la ‘grande’ politica, spesso volgarizzata in termini di mediazione pura e semplice. Quel modo di intendere la politica ha portato a considerare ‘settoriali’ e delegate ad addetti ai lavori le questioni e le scelte concrete su cui ci si deve misurare per giustificare la propria ambizione ad assumere ruolo e capacità di governo della trasformazione.
Per fare un esempio, a malapena si è accettata la sanità come terreno del fare politica, forse solo per l’ingente ammontare delle risorse umane e finanziarie coinvolte in tale ambito tematico; per il resto (politiche industriali, strategie territoriali, questioni ambientali ed energetiche) ci si limita per lo più, salvo qualche rara e lodevole eccezione, a qualche grande proposizione di fondo, cosi generica da essere del tutto inutile ( ‘piani di settore’; altroché ambizioni da ‘governo-ombra’), delegando ad altri, di fatto, la gestione dei processi reali anche laddove si posseggono strumenti di intervento o si potrebbero costruire momenti di aggregazione. Al proposito, mi sento di allargare la critica anche a quanti, tra gli intellettuali, ritennero di dovere aprire, nella seconda metà degli anni Settanta, il fronte ‘pensiero debole’, in nome del quale si mise in discussione la nozione stessa di Progetto, soprattutto se ‘organico’. L’aprire quel fronte è servito poco a chi alla trasformazione era realmente interessato poiché non ne ha molto arricchito la strumentazione culturale, mentre é molto servito a disarmare quanti già non mostravano alcuna propensione verso l’arma ‘Progetto’, alla luce della propria convinta adesione al pensiero ‘forte’ della ‘grande’ politica come definita in precedenza. Il vedere, oggi, come molti fra i proponenti il fronte ‘pensiero debole’ stiano riapprossimandosi al lido del progetto non fa che riacutizzare l’incubo ferroviario, poiché alcuni di loro erano ‘involved’ in posizioni di grande responsabilità istituzionale e politica negli anni di cui qui si parla.
Responsabilità rilevanti competono quindi ad intellettuali, singoli o gruppi; ciò anche in Emilia, a parziale correzione dell’eventuale sensazione che qui si voglia addossare ‘colpe’ solo ai gruppi dirigenti politici, sensazione che potrebbe scaturire dalla esigenza di sintesi di queste note. Anche molti intellettuali (psichiatri, sociologi, economisti) non hanno saputo cogliere l’occasione: si ricordi in questo senso la latitanza propositiva di quella che si sperava divenisse la scuola di economia di Modena: tra gli esempi in positivo, invece, mi sia consentito ricordare l’opera di Tullio Aymone, che in un mai troppo ricordato saggio sulla politica dei servizi in Emilia aveva aperto spazi di lettura ed intervento ancora oggi pienamente utilizzabili. Molto tempo si è perso, e molte occasioni; non é dato di prevedere se e quando si ripresenteranno . Venendo allo scenario attuale, a livello internazionale vi è chi, come Alain Minc, teorizza che la transizione sia ormai prossima al suo punto terminale, orientando lo sviluppo verso forme di economia allo stato stazionario da cui forse si uscirà, secondo Gjphtopoulos, solamente attivando uno dei due unici nuovi mercati possibili: lo spazio o i paesi in via di sviluppo. L’iniziativa detta di difesa strategica (Sdi) la dice lunga su quale sarà la prospettiva prescelta, di nuovo secondo logiche di massiccia concentrazione di risorse verso il volano ‘industria bellica’ e ancora a scapito delle possibilità di sviluppo appropriato delle aree marginali del mondo.
Quale spazio per un Progetto. Pure a fronte di siffatte preesistenze e nonostante l’incubo dei treni persi, mi pare che l’esercitarsi sulla nozione ‘cultura di governo’, anche a scala locale e nazionale, non sia ne vacuo né inutile. Resta forte la convinzione che nulla è dato per sempre e che perciò necessita fare avanzare la ricerca dei tempi e dei modi del coniugare etica ed impegno politico-culturale (il riformismo con principi di Fieschi, la qualità sociale di Ruffolo) in vista del rinnovamento del nostro Paese. Rifuggendo da tentazioni tecnocratiche rimane la certezza circa l’opportunità del rapporto con operatori tecnici e scientifici ai fini della costruzione e gestione di un progetto di trasformazione. La complessità della società industriale/post-industriale richiede, per essere interpretata e governata, diffusa padronanza delle conoscenze necessarie a decodificare processi e relazioni che fittamente attraversano sistema e microsistemi. Ciò che conforta nel non ritenere del tutto inutile il rinnovare l’impegno è la desolante pochezza, sul piano progettuale, della controparte economica e politica di siffatto progetto.
Nel nostro Paese, stando a quanto è dato di sapere, pare si intendano fronteggiare i noti e radicati problemi strutturali lanciando le “grandi opere” come idea-forza per il futuro:si assiste, da un lato, all’assestamento di nuovi equilibri nei circoli economici e finanziari e alla celebrazione spettacolare di ruoli ritrovati (da Orizzonti ’90 alla kermesse del Lingotto) mentre, dall’altro, si ripropongono trite e assistite azioni che vedranno sprecate ingenti risorse a fronte di benefici più che incerti. Non si dimentichi che nel nostro paese, e anche in Emilia, ‘grandi opere’ hanno significato, sin dagli avvii della industrializzazione, abbattimento di cinte murarie, distruzioni e sventramenti di tessuti urbani unici, erosione di un patrimonio limitatissimo quale il terreno agricolo di pianura; nulla è accaduto, cioè, di simile a quanto si fece altrove, dove la forza lavoro non occupata venne impiegata nel mettere a dimora nuove foreste e grandi parchi urbani, nel regimare i corsi d’acqua, nel dissodare aree marginalizzate (Tennessee Valley Authority resta pur sempre un grande esempio).
Si è assopito il gusto di ricordare come i recuperi di produttività a scala aziendale, più che mai alla luce della transizione epocale in atto, si traducano in aumenti di improduttività scaricati sul sistema sociale nel suo complesso: ciò, quando persino negli Stati Uniti di Reagan vi sono teste d’uovo che si interrogano sul limite di rottura, in termini economici e di tensioni sociali, di tale meccanismo.Vi é spazio perciò per chi, non più disponibile al ‘committment’ e strutturalmente incapace di puro e semplice ‘involvement’, voglia almeno continuare a ritenersi ‘concerned’, e quindi operare nel senso della costruzione di una piattaforma progettuale sulla quale invitare alla discussione quanti esprimano bisogno di cambiamento (studenti, imprenditori progressivi, ambientalisti, intellettuali renitenti al rampantismo, eccetera). C’è da metter mano allo sviluppo di una nuova cultura della indipendenza nazionale,proprio quando sotto le specie della internazionalizzazione dell’economia passano spoliazioni del già impoverito tessuto industriale di punta del paese. Ci sono da creare condizioni di sviluppo per nuove imprese in settori innovativi, efficienti servizi reali a quelle esistenti (dal trasferimento di tecnologie alla assistenza sui mercati internazionali); c’è da modificare radicalmente, e non è da poco, qualità tecnica ed efficienza degli apparati pubblici. Le grandi opzioni di fondo sono il risanamento ambientale del paese, il recupero dei patrimoni artistici ed architettonici, la valorizzazione a fini produttivi di boschi, pascoli, strutture abitative e culture presenti nelle aree marginalizzate, il riuso dei tessuti urbani, il decongestionamento razionale delle aree sin qui sovrautilizzate.
La sperimentazione e la diffusione di tecnologie appropriate alla piena utilizzazione della enorme varietà di risorse territoriali, floro-faunistiche, culturali di questo straordinario paese dovrebbe divenire il fulcro di un grande progetto, ad altissimo contenuto di scienza e tecnologia, che porti a qualificare anche il suo ruolo internazionale. Ancora sul ruolo dell’Emilia. È chiaro che ciò non significa evocare nostalgie passatiste, ma finalizzare la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie produttive, organizzative, informatiche, di innovazione di processo e di prodotto, di strumenti analitici e di controllo adeguati e così via . Queste sono le frontiere di una reale crescita del terziario avanzato,non i fast-food, o i pony express! Ancora una volta pare di poter affermare che proposte e forze di cambiamento non siano del tutto latitanti: l’interrogativo che si ripropone è se vi siano cultura e volontà politiche per perseguire un tale disegno, ad esempio a ripartire dall’Emilia. Chi è stato “committed” in passato qualche dubbio lo mantiene, così come qualche esigenza ( ad esempio inserire fra le regole del gioco un rigoroso controllo della pulizia delle mani dei diversi interlocutori in fase di avviamento e di gestione del progetto ), ma su tutto prevale la voglia di riprovare in nome di una non ancora sopita aspirazione all’utilità sociale del vivere. Sperando, ovviamente, che ciò non porti a futuri incubi ancora più opprimenti dell’attuale
Tanto mi pareva dovuto ULTIMA PUNTATA
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.