Nella Silicon Valley quelli come lui li chiamano evangelist. Sono quelle persone che all’interno di grandi aziende come Google, Apple eccetera pensano a come sarà il futuro, e raccontano al mondo come la rivoluzione digitale in atto sta cambiando le vite di tutti. Giornalista tosto ma atipico (laurea in economia, poi studi all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi), Luca De Biase è uno dei pochi ad aver seguito, raccontato e interpretato fin dagli inizi i cambiamenti che stanno ridisegnando il mondo dei media (e lo fa ogni giorno sul suo blog, blog.debiase.com). In un libro, Cambiare pagina. Per sopravvivere ai media della solitudine (Rizzoli) prova a ridefinire il ruolo dei media e del lavoro giornalistico oggi. Abbiamo provato a immergerlo nel grande cantiere di cambiamento di Vita; ecco i suoi spunti “di lavoro”.
Vita cambia. Si ripensa come “ecosistema informativo”: un produttore autorevole di contenuti, mediati da più piattaforme.
È la strada giusta?
È l’unica strada possibile, oggi. In modo molto rapido, si è passati da una situazione in cui la leva che determinava il mercato dell’informazione era lo “spazio” ? quante notizie ci stavano in una pagina, in un notiziario ? che era in mano agli editori, a un mercato dove lo spazio è potenzialmente infinito, e le leve di mercato sono costituite dal tempo che le persone dedicano alla lettura, dall’attenzione e dall’energia con la quale il pubblico si addentra nell’informazione. E con cui riconosce e adotta la rilevanza di quello che legge.
Che cosa chiede oggi un lettore a un giornalista, a una realtà editoriale che fa informazione?
Partiamo da un dato: più della metà delle informazioni che circolano sulla rete, sui social network in particolare, deriva da fonti dell’editoria “tradizionale”. Nella vita civile, quotidiana, nella quale occorre impegno nel seguire un certo argomento, e capirlo, e mediarlo, il pubblico si rivolge ancora all’informazione tradizionale. Il giornalista mantiene una sua autorevolezza originaria, che è data dall’autorevolezza della realtà editoriale per cui lavora. Questo perché al giornalista il pubblico riconosce un metodo empirico di lavoro ? l’informazione è frutto di una ricerca fatta secondo un metodo, che è sempre più importante esplicitare ?, e gli riconosce una funzione interpretativa, ancora più importante in una situazione in cui tutti siamo sottoposti a un bombardamento continuo di notizie, vere o false che siano. Fare da filtro a questo fiume in piena, selezionare, orientare, è quindi una funzione insostituibile.
Esistono però degli ottimi filtri automatici, dei fantastici algoritmi che già oggi possono fornire a ciascun utente un giornale “su misura” in modo automatico, sena alcun intermediario umano…
E qui casca l’asino. Gli algoritmi, come per esempio quello di Google, non fanno altro che alimentare quella che tecnicamente si chiama filter bubble. Mi vengono fornite tutte e solo quelle informazioni che il sistema ha imparato a riconoscere come miei interessi, e vengono escluse tutte le altre. In questo modo, finisco per rinchiudermi via via nella mia bolla di interessi, di rapporti, di informazioni, sempre più specializzate e sempre più, appunto, su misura. Ma così il processo è sterile. Dovere del giornalista, che vale più di un algoritmo, è mettere in relazione “bolle” diverse. Il giornalista deve essere un mediatore tra bolle: fa un mestiere artigiano, che costruisce, sulla base di un metodo, relazioni che non si formerebbero altrimenti.
Come deve essere fatta una redazione, oggi?
Più che di “redazione”, bisogna parlare di un “sistema di generazione di senso”. In cui operano tre figure fondamentali, strettamente interconnesse tra loro: quelli che con termini ormai superati chiamiamo gli autori, i grafici, i programmatori. Non è più possibile separare il contenuto dalla grafica e dal display sul quale viene consumato dall’utente, che sia la carta o il tablet. All’utente-lettore dobbiamo fornire un oggetto di design, sostenuto da una tecnologia persuasiva, e con un contenuto di senso capace di leggere una realtà complessa e dare un orientamento. Questi tre elementi devono oggi essere vissuti da chi fa informazione come un unicum, non più come pezzi separati di una filiera di lavorazione.
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