Diceva Fabrizio De André, con il suo tipico understatement genovese, che aveva deciso di aprire l’azienda agricola in Sardegna perché «mica posso lasciare ai miei figli 100 canzoni». Forse era falsa modestia, forse davvero non immaginava che quell’eredità musicale, invece, si sarebbe rivelata di un valore immenso. Così immenso da diventare difficile da gestire. Cristiano lo ha ammesso in un’intervista: «Ero arrivato al punto che quelle canzoni non le volevo nemmeno più ascoltare, se passavano in radio cambiavo stazione». Mentre il culto per l’opera del padre cresceva come un’onda (a volte come un maroso) lui è rimasto da parte, a fronteggiare fantasmi e qualche problema personale. Ci è voluto questo tour (De André canta De André) a rompere il cattivo incantesimo. «Le cantano tutti, perché non devo farlo io che sono suo figlio?». Semplice, quasi banale. L’ondata emotiva che ha accompagnato i concerti, la reazione del pubblico, numeroso e caloroso, è stato come un grande sì. Sì, Cristiano, chi meglio di te? E in effetti è un concerto bellissimo, in cui le canzoni di Fabrizio mostrano tutta la loro vitalità, respirando di vita nuova in arrangiamenti in gran parte inediti. Rubo la frase pronunciata da un amico musicista durante il concerto: «Stasera, per la prima volta, non ho visto su Cristiano l’ombra di Fabrizio. Ma la sua luce».
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