Volontariato

Davvero è stata tutta colpa della sola natura? Così ricchi. Ma così miseri con i poveri

Due settimane di guerra in Iraq costano quanto gli aiuti destinati ai Paesi colpiti dal maremoto.

di Marco Revelli

L?impotenza della potenza. La prima lezione che ci viene dall?Oceano indiano e dalle sue sponde devastate è una lezione di umiltà. Di umiltà estrema, senza scorciatoie né consolazioni. Quelle immagini quasi ?inguardabili? per la loro crudezza, i volti dei bimbi colti nell?istante che precede la scomparsa, le pire infernali dei cadaveri bruciati, i corpi morti strappati alla melma moltiplicati su una scala numerica incontrollabile, ci ributtano in faccia, impietose, tutta la nostra falsa coscienza. Una sintesi intollerabile delle nostre contraddizioni. I frantumi della nostra ubris, dell?arrogante sfida al cielo nel nome di una tecnica che insieme alla potenza prometteva sicurezza e dominio assoluto sulla natura. Tutto ciò che resta, è un sentimento deprimente d?impotenza.

Quelle colpe umane
Non è solo l?evento, nella sua istantanea distruttività, quello scuotersi appena della Terra che cancella centinaia di migliaia di vite, con cui la Natura ci ha ricordato la sua coriacea indomabilità e la nostra meschina piccolezza: ci troveremmo pur sempre nel campo degli eventi ?naturali?, come tali senza colpe, né colpevoli. è piuttosto tutto il seguito di vicende, la reazione del ?mondo?, la macchina globale dei soccorsi, la catena sempre più lunga di giorni trascorsi a tentare un aiuto e a scoprirne l?insufficienza, a colpire al cuore le nostre arroganti certezze. A rivelare le colpe tutte ?umane? dietro l?evento naturale. Le incongruenze davvero mortali di una globalizzazione che questa volta ha assunto, esplicitamente, la maschera della morte, e che nell?elenco cosmopolitico dei morti e dei dispersi, nel raggio planetario delle oscillazioni sismiche, nella circolazione universale delle immagini catastrofiche ha trovato la propria misura.
La prima incongruenza l?ha sottolineata in un bell?articolo su Repubblica Federico Rampini ricordandoci il «contrasto inaccettabile tra la formidabile macchina organizzativa che i Paesi ricchi sanno mettere in campo quando decidono di fare la guerra, e la povertà di mezzi con cui affrontiamo una calamità globale che ha superato i 150mila morti, inclusi molti occidentali». è un confronto davvero scandaloso, che ci dice quanto poco quella potenza tecnica, che pur funziona perfettamente quando si tratta di distruggere, riesca a fare quando si tratta di salvare vite umane, recuperare poveri corpi feriti, svolgere funzioni elementari come dissetare con acqua potabile, o anche soltanto stilare un elenco di sopravvissuti. Perché manca la volontà, certo.
Perché i Bush e i Blair riescono a stanziare 380 miliardi di dollari, e decine di miliardi di sterline per la guerra, ma appena 350 milioni di dollari, e qualche milione di sterline (uno 0,1% circa, forse anche meno) per questa catastrofe che pure, da sola, sembra aver provocato dieci volte più vittime occidentali dell?attentato alle torri gemelle. Perché tutto il mondo riesce a stanziare a malapena, per un?apocalisse globale come questa, l?equivalente del costo di un paio di settimane di guerra in Iraq. E non se ne vergogna neppure.

Sul terreno della povertà
Ma anche perché le nostre tecnologie, quelle per cui si investono miliardi di euro o di dollari, e si mobilita la ricerca avanzata, sono fatte, pensate, concepite, per la distruttività dei ricchi. Non riescono a operare sul terreno in cui abita la povertà. Si arrestano ai confini di quel secondo mondo che solo formalmente è incluso nel planisfero della globalizzazione, ma in realtà ne cade fuori, perché non è connesso. Perché non ha neppure, a volte, accesso all?energia elettrica. O all?acqua potabile. O a trasporti su strada. I Boeing 777 dei turisti impiegano una decina di ore, o poco più, per portare europei, americani, giapponesi nei mari del Sud, ma a Sumatra, sulle coste dell?India o della Thailandia, ci sono villaggi che neppure a una settimana dal maremoto sono stati raggiunti. E che anche in condizioni normali richiedono giorni di viaggio.

Il Prometeo travolto
C?è un?ingiustizia umana, nell?ingiustizia naturale della catastrofe, che nessuna tecnologia potrà sanare. Anzi, che le ?nostre? tecnologie non potranno che aggravare: se anche si costruisse un sistema macroregionale di allarme contro gli tsunami, esso allerterebbe inevitabilmente le aree privilegiate connesse via radio, i villaggi turistici con energia elettrica, gli hotel supertutelati (in sostanza, i ?nostri?), ma lascerebbe all?oscuro i pescatori dei villaggi più poveri, i dannati della terra ai margini del cerchio magico del benessere. Su quelle spiagge, davvero, è il nostro Prometeo a essere stato travolto: la nostra folle illusione di riuscire, per via di potenza, a dominare il mondo e noi stessi.
Se una via di ricostruzione si può immaginare, essa passerà non certo per le tecnologie ?imperiali? di un qualche ?scudo spaziale?, ma per il reticolo, a livello del suolo, di chi conosce i territori, le lingue, i costumi. Per quella rete di volontari che già, in parte, lì lavorava, e che con calma, senza ?invasioni?, andrà rafforzata. Tutti i testimoni hanno parlato di una straordinaria disponibilità di quelle popolazioni alla solidarietà e all?ospitalità. Di gente privata di tutto che offriva aiuto e sostegno. è una risorsa fondamentale per ripartire. Se qualcuno avrà voglia, e cultura, per prendersene cura e coltivarla.

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