Davide e Giorgio salgono la prima rampa di scale che porta alle classi dei piani superiori, intenti a parlare tra loro di un compagno di scuola che definiscono «sfigato». Colgo la palla al balzo e chiedo in base a quali criteri un ragazzo viene definito sfigato, e i due elencano una serie di caratteristiche: sfigato è chi il sabato sera vede un film con i genitori a casa, quelli che tra i 13 e i 15 anni non indossano vestiti di marca, quelli che non conoscono la ragazza più bella della classe di fianco alla propria, chi è timido, chi si fa accompagnare in stazione quando c’è la gita scolastica. E tra i 15 e i 17 anni? Quelli che non bevono alcol il sabato sera, che non hanno una ragazza, quelli che non si fanno le canne.
Dico loro che rientro in tutte le categorie elencate, perciò sono uno sfigato. Davide e Giorgio scoppiano in una fragorosa risata e guadagnano a passi lunghi i piani superiori per raggiungere l’aula, visto che la professoressa di lettere è in classe dalle 8 e non ammette ritardi.
Lungo il corridoio che percorro per raggiungere la sala insegnanti, non posso fare a meno di pensare alle parole di Davide e Giorgio, al vuoto che caratterizza gli adolescenti e del quale sono responsabili gli adulti, alla facilità con cui dividono il mondo in sfigati e non. Se il confronto tra adolescenti passasse attraverso le capacità fisico-sportive, i campionati tra studenti, le vittorie e le sconfitte frutto di meriti ed errori sui quali riflettere o di soluzioni di gioco intelligenti alle quali ognuno è chiamato quando ha di fronte gli avversari di altre classi, ci sarebbe maggiore benessere psicofisico, e i valori della condivisione e della solidarietà in campo sarebbero vissuti in funzione di un obiettivo comune: vincere il campionato. Lo sport è un modo per arginare quella facilità con cui gli adolescenti bollano i loro coetanei come sfigati, termine con cui definiscono i meno capaci, i quali vengono relegati in una profonda solitudine, che a questa età pesa come un macigno.
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