Cultura
Daniele Segre: «Il mio cinema senza poltrone»
"Non dico nulla su Moretti. Dico che non sono uno come lui". Il più accanito paladino del cinema sociale, per la prima volta ha scelto il teatro.
Daniele Segre, 45 anni, magro come un chiodo, radi capelli in testa, barbetta, originario di Torino, famiglia e ceppo borghese ed ebraico (nella foto sotto Lelio il padre di Daniele fotografato dal figlio), di sinistra (quella vera), regista e autore di una lunga teoria di film che a ricordarli tutti è complicato, ma che sono ben fatti, tutti, e soprattutto ideati, girati e realizzati in un modo tutto particolare, è un italiano di una razza speciale: quella rigida e savoiarda. Segre ha anche un modo tutto suo di pensare, scrivere, raccontare e filmare, ma anche di parlare. Insomma è un tipo anomalo, che si è trovato contro la sua stessa parte politica, la sinistra, che l’ha offeso, umiliato, ridotto al silenzio e osteggiato con perfidia per aver osato lavare in piazza i panni sporchi di casa. è per questo motivo che uno dei più bravi, capaci e acuti autori del cinema (e del teatro) italiano viene da anni di silenzio e depressione, non certo perché oggi al potere ci sono Berlusconi e i suoi. Siamo andati nella piccola, bella e quieta casa romana di Segre, nel popolare quartiere di Testaccio, per chiedergliene conto e per capire da lui cosa vuol dire, oggi, essere un regista “sociale” in Italia. Uno che, per capirci, costringe i suoi allievi, quelli del bel Centro sperimentale di cinematografia di Roma, per spiegar loro cosa vuol dire fare cinema sociale, a passare non una mezza giornata, ma intere settimane e mesi con i soggetti che poi diventeranno i loro saggi e primi passi artistici: “Lo abbiamo fatto con la Caritas di Roma, ad esempio, per raccontare vite rom, barbone e povere”. Già, e a sentire lui pare che si divertano pure, quei ragazzi?
Ma tu, Daniele, come hai cominciato?
Girando documentari, ovviamente, su quello che accadeva intorno a me: Il potere deve essere bianconero e Ragazzi di stadio (sugli ultrà del Torino) perché andavo allo stadio Comunale, alla fine degli anni 70, oltre che impegnarmi e militare nel Movimento studentesco e nella sinistra. Poi ho lavorato alla sede Rai del Piemonte, nei primi anni 80, un?esperienza formativa eccezionale, quando le sedi regionali della Rai producevano cultura e senso sociale e politico, non solo notizie per i tg, ma anche appunto documentari, film, inchieste, approfondimenti, dibattiti. Poi, piano piano, sono diventato un regista.
E che cosa è cambiato?
Raccontarti tutto quello che ho fatto è difficile, ma posso almeno citarti alcuni film per me fondamentali: quello sugli operai di Crotone, Crotone, Italia del 1993, quello sui minatori sardi, del 1994, e tanti altri ancora, fino al film su L’Unità, che tanti guai mi ha causato, come ti dirò poi, ma specialmente i film più propriamente “sociali”, che poi sono quelli cui tengo di più e che un settimanale come il vostro ben conosce, anche perché Vita è stato uno dei pochi giornali che mi ha sempre dato spazio, voce e attenzione: parlo dei film che ho fatto sui tossicodipendenti (Ritratto di un piccolo spacciatore), sull’Aids (Come prima più di prima t’amerò), sui bambini down (A proposito di sentimenti), sui malati di Alzheimer (Tempo Vero), sui malati di mente (Cose da matti). Fino al teatro, a Vecchie, lo spettacolo teatrale che ho scritto e di cui curo la regia, in queste settimane in scena sul palcoscenico del Piccolo Eliseo di Roma. Un’esperienza importante, quella del teatro, e “curativa”.
Vorrei ripartire dall’inizio. Che tipo di regista sei, Daniele?
Innanzitutto non sono e non sarò mai un regista “di propaganda” nel senso peggiore e più oscenamente politico del termine. Su colleghi-personaggi come il Nanni Moretti di oggi preferisco non dare giudizi, ma una cosa è certa: anche se ho partecipato a uno dei film collettivi su Genova, non riesco a essere e non sarò mai un regista di quel tipo, che non racconta quello che vede, ma che costruisce tesi e teoremi, che vuole fare piaceri o ingraziarsi qualcuno, che ragiona come un velinaro o come l’ufficio stampa di un partito. Certo, la mia totale indipendenza l’ho pagata cara, ma per me è fondamentale stabilire un rapporto vero, profondo e immediato con i protagonisti delle storie che racconto: tutti i personaggi, quasi sempre “reali”, “veri”, non attori professionisti . Io scelgo di raccontare una storia, che mi colpisce a volte anche per ragioni del tutto casuali, ma poi scelgo di stare dalla parte delle persone e delle vite che racconto e che rappresento con la cinepresa. Vedi, la macchina del regista, proprio come la macchina da scrivere, possiede un potere enorme, terribile: bisogna saperlo e bisogna saperlo usare. Bisogna non barare mai con la realtà che racconti. Io lo faccio, anche se mi costa fatica, lavoro in più, difficoltà di ogni tipo. E, a volte, veri ostracismi.
Bene, allora, parliamo anche di questo. Una storia brutta e dolente, quella del film sull’Unità?
È la prima volta che la racconto per davvero, questa cosa, ma sono davvero andate così le cose ed è una storia penosa, che mi fa male anche solo a parlarne e che mi ha lasciato tanta amarezza dentro, oltre a una forte depressione personale e oltre al fatto che mi è stato impedito di lavorare per anni. Semplicemente, le cose sono andate così: io ho avuto la malaugurata idea di entrare con la cinepresa nella sede della vecchia Unità e raccontare in presa diretta cosa accadeva, i patemi, le ansie, le scene di panico e di disperazione di un gruppo di giornalisti che veniva dismesso senza troppi complimenti. In quel momento, nel 2000, la sinistra doveva affrontare le elezioni e non poteva sopportare che qualcuno facesse vedere la meschinità e il cinismo della sua classe dirigente.
Conclusione?
Il mio film fu proibito, censurato, osteggiato, ne fu perfino sconsigliata la visione, dalla Direzione nazionale dei Ds, e a me chiusero le porte in faccia, in Rai e altrove. Scrivere e mettere in scena Vecchie, la storia di due donne anziane che si raccontano la loro vita, è stato il modo migliore che ho trovato non solo per uscire dall’isolamento, ma anche per tornare ad aver fiducia in me stesso. Un modo forte, profondo, toccante. Uno spettacolo dove si pensa e si ride.
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