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Dall’Oglio: un prete nella rivoluzione siriana

Ecco un estratto in anteprima di “Collera e Luce” il libro che uscirà l'1 ottobre, scritto dal prete gesuita, ancora nelle mani dei suoi rapitori in Siria e dalla giornalista francese Églantine Gabaix-Hialé

di Lorenzo Alvaro

Ho preso ben presto un piega politica di sinistra, in reazione a mio padre, democristiano. Era il mio modo di emanciparmi dall'imponente figura paterna. Assai giovane, militavo nel movimento delle comunità di base dei «cristiani per il socialismo». In occasione di una manifestazione contro l'imperialismo americano e contro la presenza in Vietnam, venni condotto a una stazione di polizia, dove trascorsi la notte. Un'altra volta, ho sperimentato la custodia cautelare dopo un violento alterco nei pressi del liceo con militanti di estrema destra.

Nel 1973, sono stato arrestato davanti all'ambasciata americana dove avevamo organizzato un sit-in contro il golpe compiuto da Pinochet in Cile con l'aiuto degli Stati Uniti. Il giudice in seguito mi prosciolse, dal momento che ero già novizio dai gesuiti, ai quali avevo sinceramanete dimenticato di parlare di questa faccenda.

Ben presto la questione palestinese è divenuta essenziale per il socialista che ero, giacché rappresentava un punto di attrito tra l'imperialismo occidentale e l'emancipazione dei popoli. Se da un lato ero sensibile all'ideale dei kibbutzim socialisti israeliani dove avrei voluto trascorrere un'estate, d'altro canto solidarizzavo con la lotta palestinese. Ricordo una lunga e animata conversazione con un giovane ebreo della comunità romana che difendeva lo stato di Israele. Eravamo entrambi in attesa della visita medica per il servizio militare; io avevo diciott'anni, eravamo alla vigilia della guerra del 1973. La legittimità del ritorno degli ebrei in Israele era e rimane una questione pesante. Personalmente non ho mai messo in dubbio la fondatezza di tale ritorno e della creazione di uno stato israeliano, restando al contempo solidale con gli arabi cristiani e musulmani vittime dell'ingiustizia. D'altronde, ho sempre subito il fascino della Terra Santa in tutta la sua complessità: era il periodo successivo al Concilio Vaticano II e veniva sviluppandosi un forte movimento biblico innamorato della terra di Israele.

Proprio nel 1973 ho compiuto il mio primo viaggio all'estero, dal Tevere fino al Giordano. La cicogna che mi ha portato, infatti, aveva starnutito sopra Roma e io, poi, sono "tornato” in Oriente a piedi. Una delle prime tappe del mi viaggio, insieme a tre amici, è statala visita quasi casuale al campo di sterminio di Dachau, in Germania. Si era appena stabilita in quel luogo una comunità religiosa contemplativa – cosa che mi aveva profondamente colpito. Abbiamo rapidamente attraversato il mondo comunista, l'ex Cecoslovacchia, l'Ungheria e la Bulgaria, per giungere a scoprire il mondo musulmano, la Turchia, la Siria, la Giordania. Nella valle del Giordano abbiamo dormito sotto le stelle e ricordo di aver avuto un incubo. Ho svegliato i miei compagni gridando: «Vedo dei carri armati, artiglieria e un esercito che viene verso di noi!» Era un mese e mezzo prima della guerra di ottobre…

Al momento di entrare in Palestina, siamo stati respinti dall'esercito israeliano. Il senso di superiorità che i giovani soldati Tsahal ostentavano mia ha molto turbato: forse esprimevano in quel modo la loro paura, comunque non erano corretti nei confronti dei palestinesi con cui viaggiavamo. Ho percepito tra l'anziano palestinese al mio fianco e la donna soldato di fronte, l'impossibilità di comunicare. C'era un abisso culturale impressionante.

Dopo questo tentativo fallito e il mio servizio militare ho desiderato nuovamente visitare la Palestina. Nel 1975, scopro l'ambiente arabo: l'ospitalità beduina sotto una tenda mente percorro a piedi la Galilea, le vie islamo-cristiane di Nazaret all'alba. Da Betlemme a Gerusalemme si poteva, all'epoca, viaggiare a piedi, la strada era ancora abbastanza libera, senza muri. È strano che allora io non sia andato a Khalil-Hebron la città di Abramo. COme se quella città mi attendesse oggi per portare a compimento il mio pellegrinaggio. Nel corso di quel viaggio, la solidarietà araba si è impressa nella mia anima: assolutamente non contro gli ebrei, bensì a favore del ristabilimento della giustizia e senza mai negare il peso della tragedia del popolo di Israele.

Rientrato nell'ottobre del 1975 in noviziato dai gesuiti, si dibatteva allota la questione della guerra in Libano. Ci si schierava con facilità a sinistra o a destra, dalla parte dei palestinesi oppure da quella delle milizie cristiane che agivano secondo modalità fascista. La presa della Karantina, un campo palestinese, per liberare dall'accerchiamento l'enclave cristiana a est di Beirut, è stata una battaglia spaventosa. Io, in quel momento, analizzavo la situazione più in termini di scontro di classe che non su un piano identitario. In realtà i cristiani libanesi non erano tutti a fianco dei falangisti. Esisteva una sinistra cristiana libanese solidale con il progetto rivoluzionario arabo  e filopalestinese, che era, all'epoca, principalmente sunnita. Gli sciiti restavano, per la maggior parte estranei, alla guerra in quel periodo.

Nel 1976, durante il mese di esercizi spirituali sui colli romani, avverto una chiamata a servire l'incontro islamo-cristiano. Non un richiamo dell'Oriente romantico, ma la netta consapevolezza che tale questione costituirà una priorità apostolica, la prossima posta in gioco importante dopo il comunismo. È questa preoccupazione che ha guidato tutto il resto della mia vita.  

Estratto da “Collera e Luce – Un prete nella rivoluzione siriana” di Paolo Dall'Oglio edito da Memi (12,90 euro) in libreria dal 1 ottobre


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