Il
vincitore del Premio volontariato internazionale 2013 ci ha raccontato la sua storia. Che non è come tutte le altre: ci voleva un “quid” di sensibilità in più per
mollare la sua vita in Sicilia e spostarsi, giovanissimo, in un’isola molto più a Sud –il Madagascar– a intraprendere il mestiere di
educatore ad Ambalakilonga,
Comunità per ragazzi adolescenti.
Oltre all’impegno e al sacrificio –caratteristiche imprescindibili per chi tutti i giorni pone se stesso al servizio dei più bisognosi- emerge dalle parole di Rosario Volpi la dote più importante di tutte, senza la quale il lavoro quotidiano non potrebbe poggiarsi su basi solide: l’umiltà. Occuparsi della formazione di giovani uomini malgasci con la consapevolezza che il vero educatore sta lassù, ed è lui a dettare i precetti che tutti sono chiamati a seguire, senza distinzione di censo o di razza: questo è ciò che distingue un buon volontario cristiano rispetto a un collaboratore qualunque.
Si schermisce, Rosario, prima di cominciare la chiacchierata. Sostiene di “non essere portato per le interviste”. Le righe seguenti dimostrano l’esatto contrario: oltre ad essere un ottimo educatore, è capace come pochi di raccontarsi a cuore aperto. Il buon esempio –questo è l’insegnamento che da lettori ne traiamo- viene da un trentaquattrenne originario della provincia di Trapani.
Cosa ti ha spinto molti anni fa ad avvicinarti a Educatori Senza Frontiere?
«Uno tsunami, sì lo tsunami del Sud-est asiatico del dicembre 2004. Furono proprio quelle immagini che mi scossero. Da lì che cominciai a chiedermi quale aiuto può portare un educatore in contesti devastati dalla natura, dalla povertà, dalla guerra, dall’uomo. Cosa possiamo fare in queste occasioni? A noi tocca il compito di “ri-costruire” l’uomo, ridare fiducia e speranza nella vita. A noi tocca il coraggio di guardare negli occhi gli uomini e donne, vittime degli tsunami o degli uragani e tempeste della vita, e dire che si può sempre ricominciare».
Hai accettato subito con entusiasmo la proposta di partire per il Madagascar?
«Era febbraio del 2007, ad
Ambalakilonga c’era bisogno di un educatore. Cristina, la nostra responsabile di
ESF, mi chiese una disponibilità di due anni. Ci volevo pensare, così mi sono preso un po’ di tempo per decidere. Dopotutto anche a Palermo, dove lavoravo, c’era bisogno di educatori. Mi piaceva il mio lavoro tra i ragazzi e i bambini della periferia della città, Zen e Borgo nuovo.
Alla fine decisi che a 27 anni si può fare le valigie e partire».
Come si svolge il lavoro dentro Ambalakilonga?
«Ambalakilonga è un piccolo villaggio al cui interno si trovano: una comunità, che accoglie ragazzi orfani, ex ragazzi di strada e giovani in difficoltà; un centro di formazione professionale che forma gli allievi in cinque specialità, carpenteria, falegnameria, saldatura, elettricità e informatica; un piccolo dispensario a servizio dei giovani della comunità e degli allievi della scuola, ma anche punto di riferimento per gli ammalati dei villaggi limitrofi. All’interno di queste tre macro aree s’inseriscono poi tutte le attività educative e formative che il nostro Centro propone al territorio».
In questo momento qual è la sfida principale che ti tiene impegnato?
«In questi giorni siamo alle prese con la formazione di 40 educatori che provengono dagli altri centri della città e che fanno parte della rete di protezione dei minori. La formazione è sempre un momento affascinante in cui ci si misura e ci si confronta con le esperienze umani e professionali dei tuoi colleghi nei contesti più disparati».
Quali sono le principali difficoltà che dovete fronteggiare giorno dopo giorno?
« La difficoltà maggiore credo che sia non farsi schiacciare dal peso dei problemi che la gente viene a presentarci. Certi giorni ti sei fermato ad ascoltare i problemi delle persone, le difficoltà dei nostri ragazzi, le loro delusioni, le loro domande da adolescenti, le loro sfide. Allora ti domandi: ma io cosa posso fare? Come posso farmi carico di tutto questo? Come posso trovare vie nuove per aiutare tutte queste persone? Si, la sfida maggiore è trovare sempre le risorse necessarie, nel confronto e nella collaborazione con le persone che condividono con te lavoro e vita. Certamente negli ultimi tempi risentiamo della crisi economica globale: trovare i fondi per arrivare a fine mese ti toglie il sonno».
La tua giornata tipo come è strutturata?
«Mi sveglio alle 5.30, vado a messa nella vicina parrocchia dei Salesiani. Dopo colazione accolgo gli studenti della nostra scuola professionale: è un modo per conoscerli tutti, per memorizzarne i nomi e i volti. Poi mi occupo delle faccende burocratiche: questo lavoro d’ufficio viene continuamente “interrotto” dalle persone che vengono ad Ambalakilonga per essere ascoltate, sfogarsi, chiedere un aiuto (devo ringraziare i miei due colleghi educatori Jacques e Jocelyn che in questo mi danno una grande mano). Nel pomeriggio, quando posso, resto in Comunità a seguire tante piccole attività: mi improvviso cuoco, architetto, allevatore e approfondisco i metodi di coltivazione. Alle cinque del pomeriggio chiudo tutto e mi dedico ai ragazzi: a loro disposizione per dialogare e anche per giocare. Il fulcro della settimana è poi la “parola” -momento in cui noi educatori e i ragazzi ci guardiamo negli occhi per dirci il bello e il brutto dei giorni trascorsi insieme. Ogni sera, infine, ci troviamo in cappella per pregare il Padre Nostro e ricordarci le responsabilità e gli appuntamenti dell’indomani. Infine la cena e, se tutto va bene -se cioè non arriva nessuno a chiamarci per un parto urgente- possiamo andare a dormire».
È mai capitato, anche solo per un attimo, di sentire dentro di te la tentazione di mollare?
«Credo che il senso di fallimento sia il compagno di viaggio per chi fa esperienze come la mia. Le incomprensioni, un certo senso di impotenza, le solitudini e le frustrazioni non mancano mai. Ci si trova spesso davanti a situazioni di sofferenza assurde, davanti a storie di uomini e donne più grandi di te. Come se ne esce? Imparando a fidarti di Dio, a capire che non tocca a te salvare l’umanità perché ci ha già pensato Lui. Non ti resta che essere una carezza, si, la sua carezza nel mondo; fare un pezzo di strada accanto agli atri, semplicemente amando».
Facendo un bilancio di sei anni in Comunità, riesci a estrapolare qualche episodio particolarmente significativo?
«Non dimenticherò mai quando Donnè, uno dei nostri ragazzi, dopo aver ascoltato una mia telefonata con i miei, mi disse “tu sei fortunato, tu hai qualcuno che puoi chiamare mamma”. Fu grazie a quelle parole, credo, che decisi di restare, per donare attraverso il mio ruolo da educatore quel senso di paternità e maternità che potesse far sentire i nostri ragazzi accolti ed amati da qualcuno.
Qual è il premio più bello per chi come te vive la propria vita a servizio dei più deboli?
« Il nostro lavoro di educatori è un lavoro di semina: altri raccoglieranno i frutti, quindi non possiamo godere di soddisfazioni immediate. Proprio per questo, abbiamo imparato a gioire di abbracci, sorrisi; abbiamo imparato che asciugare una lacrima, stringere mani, camminare insieme, sono il dono più bello. In un momento, in un incontro, c’è già il germoglio della felicità. Piccole cose, gioia grande».
A chi dedichi il Premio del volontariato internazionale?
« L’elenco sarebbe lunghissimo, ma certamente le prime persone a cui vorrei dire la mia gratitudine sono
mia madre, mio padre e i miei fratelli: ognuno a modo loro mi ha amato e mi ha insegnato ad amare; a
don Francesco Campo che mi ha educato nella fede e ha seminato nel mio cuore la gioia di chinarmi sugli altri; a
sorella Alba, la prima che mi ha “solleticato i piedi” e trasmesso il desiderio di andare, di mettermi in cammino; a
don Antonio Mazzi, Cristina e tutta ESF che mi hanno dato la possibilità di vivere questa esperienza che si è fatta vita. Lo dedico
a Jacques, Jocelyn e tutti i volontari che hanno fatto questo pezzo di strada insieme a me. E sicuramente
ad ognuno dei nostri ragazzi, figli e fratelli di quest’isola unica».
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