Non profit

dall’innovare al gestire:così ci siamo “seduti”

L'intervento del direttore generale del WWF

di Redazione

di Michele Candotti
Il rapporto Censis dice che il terzo settore è divenuto strutturato, presente, consolidato nei numeri ma si è affidato ad una rappresentanza (politica e non) spesso inadeguata, quasi sempre settorializzata, frammentata, e molto più mirata alla soluzione di problemi concreti e alla rimozione degli ostacoli occasionali che all’affermazione culturale “alta”, qualificata, di peso. È vero. Ci si è spesso accontentati di escamotage e scorciatoie “pratiche” per evitare un ben più faticoso cammino di affermazione culturale di una cultura del terzo settore: i casi del 5 per mille, della detassazione fiscale, per citare solo gli ultimi, sono emblematici.
Molti soggetti del terzo settore hanno avuto una loro stagione di avanguardia, di innovazione; ma dal momento in cui le intuizioni più avanzate si sono tradotte in “servizi” monetizzabili, sono cambiate le regole del gioco ed è prevalsa l’ordinarietà della gestione. È per questo che spesso i soggetti storicamente più innovativi in certi campi non hanno poi saputo intercettare ed essere protagonisti di ulteriore innovazione. Per non parlare, poi, della giustissima osservazione (e nemmeno tanto velata) di “dumping” nel mercato dell’impresa sociale, dove valori originari unici (la disponibilità del volontariato e l’agilità organizzativa) si sono poi consolidati in un’offerta strutturata di servizi a basso costo per le pubbliche amministrazioni e, in un ulteriore passaggio, ad un deprezzamento culturale del valore intrinseco del servizio stesso: pensiamo al turismo sostenibile, all’educazione ambientale, alla progettazione naturalistica, tutti ambiti di assoluta innovazione che, tradotti in offerta conveniente per i sempre più sconquassati bilanci delle pubbliche amministrazioni , hanno generato il mostro culturale per cui conservare, educare, progettare per l’ambiente è cosa di basso costo, di basso valore. Molti soggetti del terzo settore sono penetrati capillarmente nella nostra quotidianità, nei nostri territori, assumendo spesso ruolo ed immagine di “istituzioni” eterne, e quindi percepite come “scontate”. È tutto questo un effetto dell’istituzionalizzazione del terzo settore? Forse, ma un segnale chiaro emerge: è necessario rivedere con velocità la nostra narrativa, perché il dizionario che spesso usiamo per esprimere, a seconda dei casi, la nostra competenza o la nostra indignazione, la nostra professionalità o la nostra vicinanza appartiene ad una lingua che sta cambiando o che non c’è più.

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