Salute

Dalle zone di guerra a Bergamo. L’impegno di Emergency contro il virus

«Dall'inzio dell'emergenza ci siamo subito attivati. Monitoriamo i centri di accoglienza di Milano, portiamo spesa e farmaci a domicilio su alcune città e abbiamo costruito il nuovo reparto dedicato al Coronavirus dell'ospedale bergamasco», sottolinea Rossella Miccio, presidente dell'associazione. L'intervista

di Lorenzo Maria Alvaro

Sono operatori abituati a lavorare in Afghanistan, Iraq o Sierra Leone. E invece oggi sono in trincea a Bergamo. Sono i sanitari di Emergency che, insieme a trecento volontari tra artigiani bergamaschi (carpentieri, elettricisti, cartongessisti, idraulici e imbianchini), 150 volontari della Sanità Alpina e 40 della logistica della Protezione Civile Ana, hanno lavorato alla progettazione del nuovo presidio ospedaliero della Fiera di Bergamo dell’ospedale Papa Giovanni XXIII. «Fa un certo effetto immaginarci attivi in Italia, in Lombardia», sottolinea la presidente Rossella Miccio, «ma da sempre andiamo dove c'è bisogno». Questo è solo il progetto dell'associazione che ha fatto più notizia. Ma gli impegni sono molti e diversi. «Come per tutte le realtà del Terzo settore anche per noi è una situazione di amergenza sia per quello che riguarda le risorse che per quanto concerne l'organizzazione e i servizi», sottolinea la presidente. L'intervista


Come avete reagito all’emergenza Covid19?
Naturalmente ci siamo riorganizzati, sia come struttura che come attività, sia in Italia che all'estero. In Italia in particolare abbiamo attivato subito lo smartworking per la sede, abbiamo razionalizzato la presenza del personale in ufficio e riorganizzato i flussi delle persone con la predisposizione di stazioni di lavaggio mani con candeggina, monitoraggio della temperatura e registro degli accessi. Oggi la sede di Milano è diventata il coordinamento operativo di tutte le attività di risposta Covid nel mondo e il centralino è diventato di supporto a questa attività.

Quali sono queste attività?
Partecipiamo al progetto del Comune “Milano Aiuta” che ci vede impegnati nell'attività di consegna a domicilio di beni di prima necessità. Sempre con Il Comune di Milano ci siamo attivati per la formazione, supervisione e sorveglianza sanitaria nei centri di accoglienza per senza fissa dimora, minori stranieri non accompagnati e migranti. Un lavoro molto importante perché è fondamentale prendersi cura di tutti altrimenti non riusciremo a superare l'emergenza.

Quante persone avete raggiunto con questi servizi?
Con la consegna a domicilio abbiamo effettuato, dal 13 di marzo, 2500 consegne di spesa e farmaci grazie a 250 volontari. Parliamo di persone contagiate, anziani e invalidi. Nei prossimi gironi cominceremo anche a consegnare pasti pronti e il servizio lo allargheremo a Venezia, Piacenza e Catania Per quello che riguarda la formazione stiamo invece lavorando con circa 50 strutture per circa 5mila utenti cui siamo riusciti, grazie anche al Comune, a garantire strutture che permettessero il distanziamento sociale e, nel caso qualcuno manifestasse sintomi, anche la quarantena.

Dal punto di vista contabile state soffrendo?
La situazione è complessa nel senso che abbiamo visibilità, e quindi la possibilità di pianificare, solo per i prossimi due mesi. Stiamo cercando di spiegare che questa emergenza non significa solo nuovi ospedali ma anche aiuti a più livelli. Questo è importante rispetto alle attività di raccolta fondi perché è chiaro che oggi c'è più sensibilità rispetto al tema sanitario nazionale. Un grande problema è che naturalmente viene meno un po' di sensibilità per attività non strettamente legate all'emergenza. Abbiamo ad aprile l'apertura di un ospedale pediatrico in Uganda. È chiaro che in questo momento è difficile far passare un messaggio come questo. Bisogna riuscire a far passare il messaggio che una pandemia ci rende tutti connessi.

Nel senso che oggi è più importante che mai impegnarsi in quei Paesi che hanno più difficoltà e sistemi sanitari carenti?
Certo. Se non curiamo tutti il problema non si risolve per nessuno. E questo vale a livello globale. Quello che questa vicenda ci deve insegnare è che forse è più importante investire in prevenzione e salute e in welfare che, ad esempio, nell'industria bellica. È un tema che va affrontato a livello globale. Dobbiamo rivedere le nostre priorità economiche e politiche.

Il vostro core business però è sempre stata la costruzione di ospedali. Come nasce quello di Bergamo?
Ci siamo messi a disposizione della Regione Lombardia e alla Protezione Civile per dare una mano se ce ne fosse stato il bisogno. Siamo stati attivati e ci è stato chiesto di intervenire a Brescia e Bergamo, dando suggerimenti su come riorganizzare il lavoro sanitario. Quando si è poi deciso di costruire l'ospedale ci hanno chiesto una collaborazione.

Il progetto in pillole in cosa consta?
Un nuovo reparto dell'Ospedale Papa Giovanni XXIII. Noi abbiamo prima dato un contributo progettuale e oggi prestiamo alla struttura 40 risorse tra medici, infermieri, fisioterapisti, oss e personale tecnico e logistico. Ci occupiamo della gestione del repaeto di terapia intensiva da 12 letti. In totale i posti letto, a regime, sono 140 posti letto complessivi.

Avete già pazienti?
In terapia intensiva ci sono quattro persone. Tutti pazienti che sono state trasferite dal Papa Giovanni. Solo ieri sono arrivati invece i primi nuovi contagi.

La struttura è definitiva o temporanea?
L'obiettivo è emergenziale. L'orizzonte non lo sappiamo ancora e sarà il Papa Giovanni a dirci cosa succede, noi non partecipiamo alla fase decisionale. Naturalmente la struttura può avere una vita anche medio lunga, fino anche a un anno, così da essere pronti per qualsiasi eventualità.

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