All’Aquila e nei paesi del terremoto sono cominciate, in diretta tv, le inaugurazioni delle prime case. Inaugurazioni che però non riescono a coincidere con l’inaugurarsi di una nuova vita per la capitale appenninica e per chi la abitava. Una comunità di quasi 100mila persone resta a tutt’oggi dispersa tra le tendopoli residue, i residence e gli alberghi della costa. Da questa settimana alcune centinaia di persone troveranno sistemazione definitiva nei quartieri antisismici del progetto C.A.S.E. fortemente voluto dal governo. Ma altre decine di migliaia dovranno ancora aspettare casa, lavoro, servizi sociali. Dovranno aspettare nel limbo di una identità e di un tessuto di relazioni andato letteralmente in frantumi, come le infrastrutture produttive e amministrative. Un limbo che dopo cinque mesi rischia di tracimare nell’inferno fatto di polemiche politiche sulla testa della gente e dei loro bisogni, di guerre molecolari e private di chi sente il proprio futuro appeso a graduatorie generate da un freddo e burocratico algoritmo, anche perché in questi mesi nessuno ha pensato alla comunità. Non ci ha pensato la Protezione civile presa dalle sue ansie di prestazioni, locali e globali; non ci hanno pensato gli enti locali incapaci persino di convocare un tavolo dei soggetti sociali; non ci hanno pensato gli stessi soggetti sociali essi stessi nella diaspora e troppo deboli.
Vita ha seguito e seguirà (è in arrivo anche un numero di Communitas, «Aquila 09, una comunità al ground zero») ciò che succede in Abruzzo perché è il caso dolorosamente più lampante di come in questo Paese (a differenza di quanto succede in altri Paesi europei o negli Usa) non si abbia ancora percezione, né sociale né tantomeno politica, di quanto la costruzione e la cura della comunità siano un’opera pubblica fondamentale, la più fondamentale delle infrastrutture, perché da essa si sprigiona il capitale di fiducia, di gratuità, di civismo necessario ad ogni ipotesi governo e di mercato.
La costruzione e la cura della comunità come luogo aperto di relazione e di dialogo tra identità non è però opera pubblica per cui sia pensabile innanzitutto un’iniziativa governativa o un appalto a una qualsivoglia multinazionale. Si tratta di un’opera pubblica nel senso letterale della parola: tutti dobbiamo rimboccarci le maniche e tutti dobbiamo metterci pensiero. Con la consapevolezza che si fa comunità e non ghetto quando, come dice Eugenio Borgna, si ha la percezione di una comunità di destino.
Un ragionamento che ci porta dall’Aquila a Rovereto, dove si sta svolgendo Educa, un meeting che ha condensato prima, e poi mobilitato, attorno alla passione dell’educazione e, perciò, del futuro, una vera e plurale comunità: 120 organizzazioni, associazioni, ordini professionali che da mesi si scambiano proposte, idee, nomi, esperienze per costruire il secondo appuntamento che conta 140 ospiti e coinvolge ministri, insegnanti, educatori, animatori, genitori e ragazzi e bambini. «L’educazione non è proprietà di nessuno, ma responsabilità di tutti», recita il manifesto di convocazione.
Già, l’educazione è la prima sfida di chiunque abbia la percezione di una comune comunità di destino.
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.