Welfare

Dall’alcol al crack, le comunità di fronte alla poli-assunzione

Le comunità terapeutiche oggi sono sempre più specializzate. Per Biagio Sciortino, direttore di “Casa dei Giovani”, si deve parlare di poli-assunzione perché le sostanze sul mercato sono numerose. Basta, però, tenere anche presente che all’origine di tutto c’è l’alcol

di Gilda Sciortino

Che l’età dei consumatori di sostanze stupefacenti si sia abbassata è una drammatica realtà con cui dobbiamo fare i conti per potere trovare la soluzione giusta. Anche in virtù del fatto che il contrasto oggi va fatto nei confronti di più sostanze. Un approccio che ha portato anche le comunità a rivedere parametri e criteri per un più efficace intervento.

«A dispetto di quel che si pensa – afferma Biagio Sciortino, direttore di “Casa dei Giovani”, comunità con tre sedi a Bagheria, Mazara del Vallo e Matera, un’esperienza ultra quarantenne sul campo grazie alla quale, da 5 anni, è anche presidente nazionale di Intercear, organizzazione che riunisce tutte le comunità terapeutiche italiane – oggi le comunità sono sempre più specializzate. I percorsi sono anche più brevi, pure di un solo anno, con un approccio diverso alla problematica anche perché, avere a che fare con soggetti che hanno spesso non più di 13 anni, richiede un approccio differente. Inoltre, oggi dobbiamo parlare di poli-assunzione perché sul mercato le sostanze sono veramente tante. Teniamo, però, sempre presente che la madre di tutte è l’alcol, sulla quale si innesta tutto il resto».

La situazione è, quindi, più grave di quel che si pensa?

«Diciamo che siamo in alto mare anche perché la situazione si è polarizzata tra la bassissima e l’altissima età, nel senso che abbiamo anche over 50, persone cronicizzatesi nel tempo. Sono poche, ma ci sono, così come abbiamo soggetti che ancora si infettano, ma nessuno lo vuole dire. Il problema è che oggi lo screening su Hiv non si fa più come prima. Manca l’informazione adeguata rispetto al problema reale. Con la pandemia ancora peggio, si pensava che i ragazzi non uscissero ed è stato vero, ma la droga arrivava a casa ordinata attraverso il dark web. Peraltro tagliata con qualunque cosa, quindi pericolosissima. Parliamo ovviamente anche di crack, cocaina contenente prodotti chimici, dal costo bassissimo, la cui problematicità è data dalla botta che ti dà e dal conseguente craving che arriva attraverso l’assunzione immediata. Si è tornati a parlare di crack house a Palermo perché puoi fumarlo senza che nessuno dica e faccia niente».


Quanto subdolo è il crack?

«Tanto. Ti distrugge in pochissimo tempo perché ti dà un’accelerazione maggiore della cocaina. Il crackomane può farsi 10/20 volte in una nottata. Fortunatamente si è tornati a parlarne anche grazie alla Conferenza sulla tossicodipendenza che si è svolta recentemente a Genova, grazie alla quale abbiamo intravisto una luce tentando di far capire che il problema c’è sempre stato. Oggi si dovrebbe parlare di dipendenze patologiche».

Un quadro nel quale le comunità si sono trovate a dovere fare fronte a nuove emergenze…

«Certamente alla dipendenza da sostanze ma anche a quelle senza, come il gioco d’azzardo o le forme più alienanti come i social, Internet, il porno, a qualunque genere di sostanza che crea assuefazione. Recente il caso di un ragazzino che si è sparato in vena dell’alcol».

E le famiglie, cosa fanno?

«Le famiglie sono distrutte, se non addirittura inesistenti. Da sottolineare che noi tutti abbiamo abbassato la guardia nel senso che, per esempio, non percepiamo più l’alcol come un problema. Non c’è, poi, di peggio che pensare che neanche lo spinello sia allarmante. Dal canto suo lo Stato sta tornando a occuparsi del problema come se fosse un’emergenza, cosa a cui ci si abitua molto facilmente. È un modo di operare becero correre dietro le emergenze, senza un piano concreto».

Quanto le comunità oggi vanno bene e quanto sono utili altri servizi?

«Tutti i programmi vanno bene, tutte le comunità vanno bene, tutti i sistemi che approcciano il problema delle dipendenze sono ben accette. Quello che non va bene è che è mancata sino a oggi una strategia comune contro un sistema che è malato perché rincorre i fantasmi del passato. Abbiamo fatto grandi passi indietro. Ridicolo, allucinante e pericoloso. Nel frattempo, però, noi continuiamo a parlare dalla strada, guardando al complessivo reinserimento socio lavorativo dei soggetti con questi problemi».

Un grande ruolo hanno anche i centri di accoglienza. “Casa dei Giovani” ne ha, per esempio, cinque, a Bagheria, Mazara del Vallo, Matera e Ribera.

«Sono importanti perché costituiscono il front office delle dipendenze; ti danno modo di entrare in contatto con un centro di ascolto nel quale le famiglie possono affrontare i problemi. Sono i cosiddetti filtri che ti preparano a entrare in comunità, cominciando a costruire un percorso personalizzato. Importante sapere che la comunità oggi è un luogo aperto, non ci sono barriere, cancelli, chi la sceglie decide di dedicarsi a se stesso senza metodi coercitivi».

Sembra, però, che ci siano due Italie e che nel sud le cose vadano diversamente.

«Se sei un tossicodipendenti che nasce nel Sud, è vero, non godi degli stessi servizi che sono offerti in altre regioni. Questo vuol dire che dobbiamo ancora lottare affinché, all’interno del territorio nazionale, l’offerta di cura sia varia e abbracci la doppia diagnosi. Questo pèrché l’80% delle dipendenze riguarda soggetti che usano diverse sostanze e si sa che la sostanza slaterizza altre patologie. C’è un legame molto forte tra sostanza e sofferenza psichiatrica. Oggi ci sono tantissime persone con problematiche legate alla diagnosi psichiatrica e noi abbiamo solo strutture per il trattamento di dipendenze classiche. L’unica comunità femminile che abbiamo in Sicilia, per esempio, si occupa di alcol dipendenza, mentre ci vorrebbero strutture per minori o per madri e bambine. Abbiamo inviato a tre governi uno studio realizzato da Sicilia, Liguria e Lombardia, nel quale indichiamo i requisiti minimi che dovrebbero possedere i servizi presenti in Italia per potere garantire la scelta di cura. Il paradosso più grande dovere dire che se sono un tossicodipendente siciliano sono più sfortunato del mio omologo in Piemonte».

Perché non abbiamo parlato di dati?

«Perché anche una sola persona che si salva per noi è un successo. Preoccupiamoci, invece, lo dicevo prima, della poli-assunzione, legata all’utilizzo che si fa della sostanza stessa e soprattutto della frammentazione delle famiglie. Il problema non è legato alla droga e basta».

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