Non profit
Dall’advocacy al management della co-progettazione
Siamo al cospetto di uno strumento potenzialmente generativo che si propone come “pietra angolare” per edificare una effettiva sussidiarietà, ma che a determinate condizioni, potrebbe veder frantumati i beni di utilità sociale messi a disposizione da associazioni, fondazioni, imprese sociali. Come trovare l'equilibrio?
Quando un’innovazione si afferma è inevitabile che avvenga anche per contrapposizione. C’è sempre un bersaglio, solitamente rappresentato con tratti di dominanza e insieme di decadenza, che consente a ciò che è nuovo di manifestare le proprie peculiarità, enfatizzando i propri benefici rispetto a ciò che viene additato come status quo. È quel che sta accadendo anche con l’istituto della coprogettazione tra Terzo settore ed enti pubblici che per certi versi ha gioco facile nel promuoversi attraverso un modello di amministrazione condivisa opposto a un sistema di natura competitiva “plasticamente” rappresentato dalla gara d’appalto (ancor più se al massimo ribasso economico). Uno strumento potenzialmente generativo che si propone come “pietra angolare” per edificare una effettiva sussidiarietà, ma che a determinate condizioni, potrebbe veder frantumati i beni di utilità sociale messi a disposizione da associazioni, fondazioni, imprese sociali.
Un rischio questo che emerge dalle prime sperimentazioni territoriali dove si evidenzia da un lato, una maggior integrazione e impatto intorno a bisogni d’interesse generale, dall’altro una crescente percezione, da parte degli Ets, di esser parte passiva di processo strumentale: un meccanismo che non riesce a mantenere le promosse attese perché incapace di valorizzare la biodiversità ed il lavoro di istituzioni diversamente pubbliche. È dunque il vigore dell’advocacy e la tensione a costruire soluzioni “fra diversi” per rispondere alla complessità dei nuovi bisogni sociali, che induce un numero crescente di amministrazioni locali, ad intraprendere percorsi di progettazione condivisa: processi sempre più spesso supportati da sistemi esperti – società di consulenza, centri di ricerca, ecc. – che svolgono funzioni di facilitazione dei processi e di promozione dei diversi istituti normativi e delle loro culture.
In attesa che l’Osservatorio sull’Amministrazione condivisa (lascito del governo Draghi) ci restituisca una fotografia omogenea e significativa dell’impatto del nuovo istituto, è facile osservare le inevitabili ambiguità e resistenze applicative e la contrapposizione tra i diversi modelli di amministrazione condivisa. Una polarizzazione che se da un lato ha il merito di rendere ancor più evidente, anche fuori della cerchia degli addetti ai lavori, la posta in gioco legata alla co-progettazione, dall’altra può rischiare, per certi versi, di creare una sorta di attrito verso una convinta implementazione orientata a migliorare la qualità dell’inclusione. L’amministrazione condivisa, infatti, dovrebbe produrre cambiamenti non solo attraverso l’infrastrutturazione di uno spazio di relazione tra Pubblica Amministrazione e società civile allo stato nascente, ma anche, e forse soprattutto, ristrutturando l’intero sistema di allocazione delle risorse ormai profondamente sedimentato nelle pratiche e nelle culture di entrambi i soggetti in campo. Guardare alla coprogettazione in senso più pragmatico, come pratica per certi versi normale dell’amministrare, potrebbe quindi aiutare a smussare gli angoli che, vale la pena di ricordarlo, riguardano non solo la componente amministrativa ma anche il terzo settore, favorendo così percorsi, altrimenti davvero complicati, di ristrutturazione organizzativa e ancor di più di approccio al ruolo.
In una fase in cui è necessario alzare l’asticella delle politiche a fronte di sfide epocali oggi rappresentate come “transizioni”, la coprogettazione, soprattutto se in chiave sistemica e matura, dovrebbe sapersi configurare come un contesto capace di rafforzare catene di valore condiviso che ben poco assomigliano a meccanismi di coordinamento finalizzati ad allocare risorse date e non co-generate. L’essenza della co-progettazione è infatti la valorizzazione degli apporti e non l’estrazione o la mera aggregazione degli stessi come dimostrano le prime sperimentazioni virtuose sulla rigenerazione degli spazi pubblici (es. Napoli e Reggio Emilia). Progettualità che confermano come sia l’innovazione sociale la sostanza intorno a cui l’istituto giuridico trova la sua più alta applicazione e non il contrario.
Ciò significa però, anche da parte dei promoter della coprogettazione, riformulare i contenuti dell’advocacy promuovendo una rappresentazione più sfaccettata dell’istituto, comprensiva anche delle sue ambivalenze. Non bisogna infatti, aver timore di sostenere che questa modalità di intendere la gestione della cosa pubblica non elimina i rischi di colonizzazione del Terzo settore da parte delle logiche burocratiche, anzi può riproporle in forma nuove. Infatti per quanto sia possibile per i soggetti della società civile proporre istanze che innescano il processo, la parte pubblica ha saldamente in mano tutti i passaggi chiave: stabilisce chi sono i partecipanti potendone modificare l’assetto anche in corso d’opera e inoltre può “ricusare” l’esito della coprogettazione e trasferirla in campo competitivo. Criticità che non devono interrompere la sperimentazione in corso, ma che non vanno taciute pena il rischio di alimentare logiche di isomorfismo. Serve quindi una postura pragmatica e trasformativa, capace di affrontare alcuni nodi di ordine strategico e gestionale che oggi appaiono ancora poco esplicitati.
- In primo luogo come è possibile garantire continuità e stabilità della produzione di beni e servizi di interesse generale in regime di coprogettazione? La presenza di una pluralità di apporti rappresenta infatti un elemento di “valore aggiunto” ma nella misura in cui sa dotarsi anche di infrastrutture phygital (fisiche e digitali), in buona parte ancora da costruire, che consentano di cooperare nella diversità incrementando propensioni e capacità di investimento.
- In secondo luogo come è possibile riallineare approcci di co-programmazione in gran parte determinati da logiche e culture amministrative di natura incrementale con politiche di missione che si sostanziano in obiettivi di impatto sociale? Senza una strategia trasformativa incorporata ex ante nella co-programmazione, l’impatto sociale rischia di ridursi in un set di metriche ex post che alimentano in maniera indiretta, una nuova burocratizzazione della “compliance”.
- In terzo luogo su quali risorse è possibile contare per sostenere processi di change management dei soggetti coinvolti nella coprogettazione? Si tratta infatti di azioni destinate a incidere in profondità in quanto agiscono non solo a livello di ingegneria (organigramma e funzioni) ma di cultura organizzativa.
- Infine, ma non per ultimo, quali innovazioni sono necessarie per allestire o riallestire corpi intermedi che non si limitino a proceduralizzare e neanche solo a facilitare ma piuttosto a infrastrutturare l’amministrazione condivisa? Il dettato normativo e regolamentare lascia molto spazio in tal senso per una “creatività istituzionale” che appare quanto mai necessaria al fine di costruire assetti che siano adeguatamente equilibrati nella loro propensione al cambiamento.
Rispondere a questi, e probabilmente altri, interrogativi richiede un salto di qualità passando dall’advocacy al management della coprogettazione. Un passaggio sostanziale che nel secondo tempo della Riforma del Terzo Settore, risulta indispensabile mettere a terra per dispiegare tutta la capacità generativa di un istituto che ambisce a dilatare il perimetro pubblico delle politiche e contemporaneamente a innovare le soluzioni co-create con le istituzioni della società civile.
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