Cultura

Dalla paura nascerà un nuovo legame sociale. Rileggere Ulrick Beck contro il terrorismo

"La paura crea la propria realtà", scriveva il sociologo tedesco Ulrich Beck. Una realtà che mette il mondo in radicale pericolo. "Senza una lingua per il futuro" - dichiarò nel 2001, in una conferenza alla Duma - vivremo in una società mondiale del rischio" dove parole come "guerra", "violenza", "crimine", "terrorismo" indicherano tutto e niente lasciando l'uomo in balia dei suoi fallimenti. Ma dalla paura può anche inaspettatamente nascere un nuovo legame sociale.

di Marco Dotti

Il suo lavoro più noto lo aveva pubblicato nel 1986, l’anno della catastrofe di Černobyl. Risikogesellschaft, tradotto in italiano nel quattro anni dopo col titolo La società del rischio, non ha solo fatto conoscere a tutti il lavoro del sociologo tedesco Ulrich Beck, nato a Stolp il 15 maggio del 1944 e scomparso il 1 gennaio 2015, ma ha anche portato all’evidenza una tesi che, nel corso degli anni, Beck non si è mai stancato di ribadire: “la produzione sociale di ricchezza è oramai inseparabile dalla produzione sociale di rischi”.

Un nuovo principio politico

Per questa ragione, la vecchia politica di redistribuzione dei beni non può più reggere. Serve una politica di ridistribuzione dei rischi. Ma qui il piano diventa particolarmente complesso proprio perché – osservava Ulrich Beck – nessuna istituzione può più farsi garante per quei rischi. Lo stato di paura, da cui il politico classico garantiva il sociale, non è dietro, ma davanti a noi: è un potenziale che può sempre esplodere, in forma di guerra, catastrofe, crollo di Borsa. In una parola: siamo passati dalla società dei beni e servizi alla società dei rischi e delle perdite. Contenere non basta, prevedere non è forse più possibile. Occorre altro.

Sappiamo che le biotecnologie, le manipolazioni genetiche, lo sfruttamento intensivo delle risorse energetiche e ambientali segneranno il nostro futuro prossimo ma nessuno può veramente conoscere che cosa quel futuro riserverà alle prossime generazioni. Per questa ragione, Beck si era detto convinto che il ragionamento sulla società del rischio dovesse accendere un dibattito che mirasse a ridefinire un nuovo principio politico in questo contesto segnato sempre più dall’incertezza e dal pericolo.

Essere moderni significa aver paura di morire

"Essere moderni significa aver paura di morire. Questi, invece, uccidono se stessi e altri per andare in Paradiso – eppure sono "moderni": dotati di competenze tecniche ultraspecialistiche, sanno che la civiltà moderna è un unico tallone d' Achille.
Un' intima confidenza con le debolezze della modernità, delle quali si servono senza pietà. Antiglobalismo fanatico. Antimodernismo e pensiero globale moderno qui sono direttamente mescolati l' uno con l' altro. Analizzando la figura dello sterminatore nazista Eichmann, Hannah Arendt ha parlato della "banalità del male". Da allora, potevamo concepire tecnocrati assolutamente malvagi e buoni padri di famiglia, ma non terroristi di Dio sposati in Occidente con lauree in ingegneria e una predilezione per la vodka, che per anni pianificano in segreto e in modo tecnicamente perfetto il loro suicidio di gruppo come assassinio di massa, mettendolo in atto freddamente, armati di un coltellino tascabile. Il terrorismo transnazionale ha anche aperto un nuovo capitolo nella società mondiale del rischio. È necessario distinguere chiaramente l'attentato in se stesso dalla minaccia terroristica che attraverso di esso viene universalizzata".

La paura e il legame sociale

In un'intervista rilasciata nel 2007 al mensile francese Philosophie Magazine,Beck affermava: "Paradossalmente, la paura può creare un legame sociale attraverso una nuova forma di opinione pubblica. Prendiamo l’uragano Katrina: i reportages dedicati dai media internazionali alla Nouvelle-Orléans hanno diffuso in tutto il mondo terrore davanti alla povertà e al razzismo degli Stati Uniti. L’Altro “escluso” è subito onnipresente e focalizza allo stesso tempo l’interesse nazionale dei paesi occidentali. I rischi globali ci costringono dunque considerare gli altri, i culturalmente altri, nelle nostre valutazioni del mondo. Dall’onnipresenza del rischio si genera quindi una forza di coesione sociale".

Stati-zombies

Nella sua riflessione sulla società del rischio, Beck si era espresso molto criticamente contro la categoria – tutta moderna, ma riemersa dopo l’esplosione della Repubblica Federale di Jugoslavia – degli Stati-nazione, che non esitava a definire “Stati-zombies”. Per lui, bisognava mirare a un parlamento globale e l’Europa federare, in questo senso, poteva rappresentare una prima tappa verso questa forma di globalizzazione cosmopolita.

"L'Europa? È riconoscere la dignità dell'Altro"

Beck sull'Europa è sempre stato in prima fila, ma non ha lesinato critiche all'apparato. Come il suo collega Habermas, ha visto nell'Europa una possibile tappa verso quel cosmopolitismo che spingeva Immaunuel Kant a affermare che "pensare se stesso come membro integrato della società cosmopolita in base al diritto di cittadinanza è l'idea più sublime che l'uomo possa immaginare della propria destinazione ed essa non può essere formulata senza provare entusiasmo". Con entusiasmo, chiosando questo passaggio kantiano, Beck infatti ribadiva: "auspico la nascita di un’Europa cosmopolitica. Non tanto un dispositivo istituzionale, intendo con ciò un insieme all’interno dei confini nei quali la diversità è riconosciuta. Nel cosmopolitismo, è importante riconoscere il fardello e la dignità dell’Altro.Fardello nel senso che ogni minoranza e ciascun gruppo, all’interno come all’esterno dell’Europa, porta il peso del suo passato – le popolazioni migranti, le minoranze religiose, le donne, gli omossessuali, etc. Qui risiede il centro della mia concezione del cosmopolitismo: una forma particolare di gestione sociale dell’alterità culturale."

Verso una comunità di destino

Nella crisi che sta travolgendo il nostro mondo, irrigidendolo in forme sempre più lontane dalla vita, il pericolo corre su superfici lisce e globali. Al tempo stesso, però, questo pericolo ha ricadute verticali, profonde. Che cosa resta da fare? Forse nient’altro che rompere quelle forme, facendo comunità, andando verso ciò che proprio Ulrich Beck ha chiamato una «comunità esistenziale di destino» (U. Beck – E. Beck-Gernsheim, L’amore a distanza, Laterza, 2012, p. 86). Solo così, riconoscendo l'Altro e legandosi all'Altro in una comunità di destino è possibile uscire dalla "realtà" della paura riconoscendo la realtà, anche la realtà del rischio.

Responsabilità della parola

Resta però un punto, poco esplorato dai lettori di Beck. Il punto critico – o chiave che dir si voglia – della parola. "Senza una lingua per il futuro" – dichiarò Beck nel 2001, in una conferenza alla Duma di Mosca – vivremo in una società mondiale del rischio" dove parole come "guerra", "violenza", "crimine", "terrorismo" indicheranno tutto e niente lasciando l'uomo in balia dei suoi fallimenti. Siamo diventati irresponsabili verso le parole che pronunciamo e queste parole, osservava il sociologo, citando la Lettera di Lord Chandos di Hofmannsthal, “ci si disfano in bocca come funghi ammuffiti”.

Oggi, però, “non possiamo più permetterci di tacere. Se riuscissimo a dare un nome al silenzio dei singoli concetti, a misurare la distanza che li separa dalla realtà e a costruire un ponte che ci permetta, pur agendo con prudenza, di comprendere quegli aspetti innovativi che sono il frutto dell’agire della nostra civiltà, forse non risolveremmo molto, ma sarebbe pur sempre qualcosa”.

Che cosa rivelano, nella prospettiva di Beck, eventi tanto eterogenei come il disastro nucleare di Fukushima o l’attacco alla Twin Towers dell’11 settembre o un repentino crollo del mercato finanziario globale? Rivelano una discrepanza. “Una discrepanza – scriveva in Un mondo a rischio, Einaudi 2002 – tra la lingua e la realtà”. La società del rischio è esattamente la condizione di chi vive in quella discrepanza.

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