Welfare

dalla gabbia al cielo

di Redazione

Al carcere di Opera, alle porte di Milano, da due anni è nata una compagnia teatrale, che è stata battezzata Opera Liquida. Ci lavorano un gruppo di detenuti, docenti e studenti della Naba e un gruppo di esperti. Tra loro c’è anche Elena Mearini, scrittrice. Che qui racconta un’esperienza straordinaria con queste persone che hanno «l’emergenza di essere considerate uomini prima e dopo ogni altra qualifica»
Ci sono mura alte, cemento votato alla recinzione, un giuramento di terra armata che fa barriera contro il cielo. Ci sono ingranaggi al comando di porte blindate, cancelli stanchi di chiudersi, cardini annoiati dalla compagnia del solito ferro. C’è il mazzo pesante di chiavi legate alla cinghia di un calzone, il passo della guardia che anticipa al suolo lo scatto di serratura. C’è lo schianto cocciuto del sole contro la finestra, una disfatta di raggi piegati alle sbarre.
Si cammina lungo i corridoi con mosche di luce a ronzio perduto, stecchite al confine di reclusione e libertà. Ogni tanto lo spiffero dell’aria trova pertugio di venuta, sulla pelle pare di sentire attrito di fischio nel vento. E allora viene voglia di credere a una partenza, al miracolo di una cella che si carica a vapore e prende a muoversi sul binario giusto. Sì, a volte può bastare la raffica minuscola di quel fuori enorme. Per convincersi che sia possibile svegliarsi una mattina dentro il vagone del riscatto, sopra le rotaie della redenzione.
Scrivo appunti presi dal sacco della memoria, scelti a manciata di pugno, a mucchio d’istinto. Scrivo e addento la buccia di un’esperienza di cui non è facile raccontare la polpa, spiegare la verità di un seme respinto dagli appezzamenti della società, vangato lontano da ogni terreno riconosciuto degno d’irrigazione e cura. Scrivo e mordo piano, a cautela d’incisivi, perché a masticare l’argomento carcere e detenzione il dente si sbecca e la gengiva fa la smorfia.
Arrivo a Opera poco più di un anno fa per prendere parte a un laboratorio teatrale che coinvolge un gruppo di detenuti. Gli addetti ai lavori li chiamano “i ristretti”, questi individui ridotti a essere sagoma della propria colpa, ritaglio incollato sul supporto di una condanna. Supero i controlli di sicurezza, attraverso un rettangolo di cemento incubato nelle mura, raggiungo l’interno dell’edificio e seguo il corridoio lungo, tubo stretto in cui le suole scaricano ogni volontà di corsa. Viene da avanzare piano, a misura di passi lenti. Come se il provenire da un esterno libero recasse disturbo a questo dentro di fiato corto e gola soffocata.
La sala del teatro è ingombro tolto alla trachea, le poltroncine rosse e il grande palco di legno spronano l’avvio dei polmoni. Mandano a trotto il respiro, a galoppo lo stupore.
Loro, i ristretti, se ne stanno seduti in prima fila. Schierati uno di fianco all’altro, nel sussurro di storie che s’incatenano spalla a spalla. Mi vedono entrare e si alzano tutti insieme, corpo unico proteso al sorriso. Le loro mani cercano la mia, nel palmo passano decine di strette, ognuna mi deposita il proprio nome tra le dita. Nomi che scivolano lungo il polso, cercano la vena che batte vita, il sangue che accomuna l’uomo. Nomi che già alla prima sillaba risuonano nelle ossa, scuotono i nervi, chiamano l’attenzione della carne. Nomi che basta l’ultima sillaba a farmi dimenticare di essere davanti alla specie dei ristretti. Amnesia beata capace di dirmi: «Ecco, questi sono uomini». Uomini come tanti, solo incappati nel guasto di un’anima incapace di aggiustarsi prima che il proprio corto circuito recasse incendio e danno a terzi. Uomini che adesso sono qui, pronti a scoprire se il dado del teatro può condurre a una vincita nuova, a una giocata pulita che non si porti appresso la macchia del baro.
Ascoltano i suggerimenti di Ivana, seguono in ipnosi sacra le sue invenzioni drammaturgiche. Replicano i gesti di Gianni, fedeli alle strambe e matte coreografie che riportano l’adolescenza sopra un palco ormai vecchio. Assecondano i suoni di Francesco, le sue regie pizzicate dal canto, appunti di musica tra le labbra.
Sono trascorsi mesi da quel giorno d’inizio, ore di ripetuta scommessa, tempo di ostinata sfida a fare di una gabbia la stanza delle meraviglie, uno spazio di cura per la coscienza. Dove la ciste della colpa potesse sgonfiarsi del suo male con il suono di una trombetta da carnevale, dove il pentimento arrivasse portato da quella carrozza di cristallo che prima era zucca sepolta nel fango.
Durante il laboratorio si è aperta la cesta dei serpenti, ognuno ha vibrato sopra il palco il proprio sonaglio di rabbia, si sono viste le lingue della paura, i loro veleni picchiati nel taglio. Rivedo i tremori di R. nello sminuzzarsi in bocca le sue poesie, recita salmi imparati da fughe per le strade, alle costole la sirena di una volante e una pistola nella tasca come unico santo protettore. J. che tira i fili delle sue battute, cuce la toppa dell’ironia sopra lo squarcio dell’errore, il mestiere di sarto torna utile sopra la scena, gli permette d’imbastire una resurrezione nella veste dell’attore. Eccolo che quasi ci crede, al punto croce di una seconda vita. A., perso in silenzi lontani, buttato a testa indietro nelle notti di borgata, negli occhi una lampada stretta male, si guarda intorno a intermittenza di luce. Eppure sul palco il suo corpo resta acceso, è chiarore costante di danza e di voce. Si muove preciso nel ritmo, con talento di muscolo e orecchio, fiaccola-guida della processione intera. E ancora M. che si scava ovunque la tana del nascondiglio, fugge dal gruppo come un ratto appestato perché la fogna gli è amica più del cielo. Però sopra la pelle porta le nuvole dipinte, il sole tatuato. Tiene l’illustrazione di una speranza, tra il bicipite e la spalla. Gli toccherà condividere il sogno, confessare che ancora gli vive dentro, quel bisogno di cielo addosso. Lo farà quando per esigenze di scena dovrà sollevare un saluto al mondo. Lo farà a braccio alto e cuore in volo. Sotto la luce massima del riflettore centrale.
Ricordo loro e tutti gli altri, uomini pieni di detriti, schiacciati dallo smottamento del destino e da una frana di coscienza. Loro tutti che basta l’incontro con l’Altro per levarli alla sepoltura e scoprire il muscolo vivo sotto la lastra di marmo. Perché sopra quel palco il cerchio della fratellanza si è sostituito all’anello della catena. Perché è stato prodigio di giostra, il nostro giro a mani unite che sbatteva l’aria tanto forte da piegare le sbarre e abbattere le mura. Ci sono istanti in cui crollano tutte le definizioni, assassino e santo, criminale e benefattore. Istanti in cui l’Altro esiste per il puro piacere di un respiro comune, di un sudore mischiato, di uno sguardo offerto quando l’iride incontra il meglio del suo colore. In quel preciso taglio di luce che sega via il ramo della menzogna dal tronco della verità.
Allora si legge, chiara sopra i volti, l’emergenza di essere considerati uomini prima e dopo ogni altra qualifica. Ed è uomo chi come J. intaglia per giorni interi il legno, ne fa un violino da regalare agli scenografi e spera che qualcuno allarghi al cielo le sue note ristrette in cella. È uomo chi come A. al termine dello spettacolo, occhi innamorati di lacrime e conversione, condivide con il pubblico questo suo pensiero: «Ci vuole più coraggio per dire a qualcuno “Ti voglio bene”, che a impugnare la pistola e fare una rapina».
Sì, il carcere può e deve tendere a diventare luogo di salvezza anziché limitarsi ad essere spazio di dolore e colpa tenuti a bada. Il teatro si è preso la briga santa di caricarsi in spalla quest’ambizione e portarla su. Il più possibile vicina agli occhi di Dio.

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