Quando all’inizio degli anno 90 cominciai a racconatare le esperienze e le leadership della società civile italiana feci appena in tempo a conoscere Rosanna Benzi. Amava la vita. Era allegra e ironica. Fino all’ultimo; fino a quando un male incurabile trocò la sua voglia di vivere, a 43 anni non ancora compiuti, ventinove trascorsi in un polmone d’acciaio nella sua camera dell’ospedale San Martino di Genova, si spense il 4 febbraio 1991. Rosanna Benzi fu una donna «simbolo» delle battaglie contro l’emarginazione dei più deboli, una testimonianza di come si possa affrontare la vita con determinazione e coraggio, nonostante l’immobilità forzata, la dipendenza totale da una macchina per poter respirare, le pareti d’una stanza d’ospedale. Quel polmone d’acciaio dell’ospedale San Martino di Genova poteva essere considerato una «prigione» per tanti. Non per lei. Ha continuato a guardare il mondo intero attraverso uno specchio ed il mondo ha conosciuto il suo volto riflesso in quello specchio, la sua determinazione nel voler affrontare sul serio i problemi, anche i più difficili (anche i temi «tabù», come il rapporto tra sessualità ed handicap, per fare un solo esempio). Rosanna da quella stanza e da dentro quella macchina guidò battaglie per i diritti delle persone disabili, fondò e diresse una rivista Gli altri, scrisse due libri, Il vizio di vivere che nel 1989 divenne un film diretto da Dino Risi, protagonista Carol Alt, e Girotondo in una stanza.
Rosanna riuscì a convocare in quella stanzetta d’ospedale volontari, collaboratori, giornalisti, registi, politici, e quella stanza divenne piazza pubblica in cui le istanze dei movimenti delle persone disabili prendevano forza e voce. Poche settimane prima di morire Rosanna in un’intervista alla Rai disse: «Spero che il lavoro che ho iniziato vada avanti. Spero di lasciare di me l’immagine di una donna con pregi e difetti. Un po’ matta, un po’ ironica. Spero di non aver fatto brutte figure …». La straordinaria avventura umana di Rosanna ispirò anche il titolo della trasmissione che condussi su Raidue dal 1991 al 1994, “Il coraggio di vivere” insieme ad una persona disabile come conduttrice, Nadia Di Bella.
Sono passati vent’anni da allora e mi chiedo dove sia finita la forza della voce delle persone disabili e dei loro movimenti oggi. Nella vicenda di Eluana, se si esclude il ricorso alla Corte di giustizia europea delle 80 associazioni di parenti, amici e medici di malati in stato vegetativo, cerebrolesi o gravemente disabili, del resto silenziato dai media, poche voci si sono udite forti e chiare a difesa dei diritti dei disabili gravi. Colpa di un sistema mediatico che in vent’anni si è ulteriormente corrotto allantonandosi sempre più dal racconto della realtà. Ma forse colpa anche di un sociale sempre più muto nonostante il nostro Parlamento stia ratificando la Convezione Onu sui diritti delle persone con disabilità.
Ora a pontificare in Tv c’è rimasto Ignazio Marino che si scandalizza se le telecamere inquadrano, in una dei reparti dove i disabili gravissimi sono accuditi e curati, una mano di un parente che accarrezza il suo caro. Lui, il saputello della medicina, dice che è vergognoso fare vedere certe cose in tv (sic proprio così). Intorno a lui il coro di chi da anni, invece di imparare il coraggio di vivere e il suo possibile senso, ripete con ossessione che è meglio “farla finita”.
E il mio pensiero corre a Rosanna che parlava e rideva in televisione, a Nadia Di Bella che intervistava il sabato sera in prima serata politici e medici su una sedia a rotelle. E mi dico, amici con disabilità, non è che vi stanno cancellando dalla pubblica piazza?
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