Cultura

Dal Mondo. L’anima zingara è meticcia

A Saintes Maries de la mer per dimenticare Opera

di Redazione

«Mi chiamo Baptiste, sono un gitano di origine spagnola, ma vivo in Francia da molti anni. Ho una casa, percepisco la pensione, i miei figli lavorano. Di fatto sono sedentario: l?unica occasione per viaggiare sono i pellegrinaggi.» Baptiste viene alle Saintes-Maries-de-la-Mer da quando aveva sei anni. Ora ne ha più di sessanta. Risiede a Montauban, nella pancia della nazione transalpina. Lì ha lavorato come carpentiere per tutta la vita. «Ma verso la fine di maggio mi sono sempre tenuto libero. Sento il richiamo della mia gente, prendo la mia auto, la mia roulotte e vengo qui con tutta la famiglia. A tenere viva la mia identità.»

Già, e qual è l?identità del popolo ?zingaro?? Marc Bordigoni, studioso dei gitani presso l?università di Aix-en-Provence risponde: «La loro identità è qualcosa di molto flessibile. Si tratta di un popolo che ha poche caratteristiche comuni e le differenze superano di gran lunga le analogie.» Nomadi e sedentari, emarginati e integrati, tradizionalisti e moderni: ogni famiglia si descrive in modo diverso. «La verità», continua Bordigoni «è che ogni categoria generica è ingannevole. A seconda della loro provenienza, parlano lingue diverse, seguono fedi e culture differenti, svolgono le attività più disparate. Si chiamano rom, sinti, manouches, gitani, yéniches: l?unica cosa che unisce veramente i cosiddetti ?zingari? è lo sguardo degli altri su di loro.»

E lo sguardo degli altri si divide in due semplici categorie. I romantici vedono solo musici e chiromanti, come se dietro ogni gitana si celasse un?Esmeralda o una Carmen del terzo millennio. I ?realisti?, in maniera più o meno esplicita, sono d?accordo con Miguel de Cervantes: «Sembra che i gitani non siano sulla terra che per essere ladri; nascono da padri ladri, sono educati al furto, s?istruiscono nel furto e finiscono ladri belli e buoni al centro per cento.»

Claude Dumas, prete cattolico e responsabile della pastorale nomadi francese, la pensa così: «Coltivare gli stereotipi è la cosa più semplice. I giornalisti e i fotografi trovano quello che cercano. Ma se ogni tanto si cercasse la relazione, l?incontro, forse si potrebbe capire qualcosa in più». Claude è il classico filo rosso che unisce due mondi. è manouche, ?zingaro? di origine francese, e nella vita fa il pastore di anime che non hanno colore. «Organizzo spesso incontri fra gitani e non-gitani. Senza parlare d?identità. Così, con gli occhi bendati e il pensiero libero, è più facile imparare a conoscere l?altro. E apprezzarlo. Poi magari, si scopre che era pure un gitano. E naturalmente, viceversa.»

Anche Engé ha il suo filo rosso e la sua storia da raccontare. «Vengo dall?Alsazia, una regione difficile. I miei nonni vivevano nelle roulottes in legno e percorrevano la Francia a passo di cavallo: erano nomadi. Oggi i tempi sono cambiati: io sono e mi sento francese al 100%. Ma questo non vuol dire che mi sia dimenticato dell?identità manouche.» Engé ha seguito i consigli dei suoi genitori, che lo hanno sempre incoraggiato a studiare. Oggi è laureato, ma «quando ho dovuto scegliere del futuro, sono tornato alla mia passione, la musica.» Chitarrista di un gruppo rock-folk, Engé spiega la genesi delle sue musiche meticcie: «Le nostre melodie sono un mix di ritmi tipicamente manouches e sonorità moderne. L?unione di elementi della tradizione con stili dei non-gitani è qualcosa di emblematico: testimonia che la nostra cultura è un insieme di altre culture. Siamo legati al passato, ma allo stesso tempo molto attenti e recettivi verso le persone che ci sono accanto nel presente. L?identità gitana, in realtà, è il frutto di una serie d?incontri.»

Partiti dall?India circa mille anni fa, gli ?zingari? si sono sparpagliati in Asia, in Europa, nelle Americhe. «Qualcosa è rimasto sin dalle origini», conclude Engé, «Abbiamo un forte senso del pudore, coltiviamo un profondo rispetto per gli anziani e pensiamo che la famiglia venga prima dell?individuo.» Fedora è un simbolo di questo ponte fra generazioni: il padre le racconta sempre le esperienze di musicista itinerante, mentre la figlia studia lingue e mette il completamento degli studi in cima alle sue aspirazioni. «Ma io sono una bugia nen» scherza la sinta Fedora.

L?accento piemontese tradisce la sua provenienza: «Abito a Cuneo da quando sono nata e ormai in casa parliamo solo il dialetto. La nostra lingua, in realtà, è il ?romanés?, ma da quando ci siamo sedentarizzati, lo stiamo perdendo quasi senza accorgercene. Un po? mi spiace: mia figlia sa il francese, l?inglese, lo spagnolo, ma non conosce la lingua dei suoi genitori.» E i piemontesi, come vedono i sinti che vivono a Cuneo? «Bene», risponde ancora Fedora, «Ma non bisogna dimenticare che mio padre, Amilcare Debar Taro, ha fatto tanto per loro: ha combattuto fra le montagne coi partigiani. Lo stato italiano ha riconosciuto i suoi meriti e gli ha dato una targa che ne testimonia il valore.»
Per Mario, anche lui sinti, anche lui di Cuneo, «la nostra identità comune si manifesta soprattutto nel senso di solidarietà. Io vengo tutti gli anni alle Saintes-Maries-de-la-Mer per confrontarmi con gli altri ?zingari?. è importante sapere cosa vivono, come se la cavano, come risolvono i loro problemi.» Mario spiega che quest?anno, in particolare, la solidarietà delle altre famiglie è benvenuta: «Noi siamo persone semplici, lavoriamo per procurarci da mangiare: insomma, vogliamo lavorare per vivere, non vivere per lavorare. Allora spesso ci si accontenta e ci si arrangia. Io e la mia famiglia raccogliamo ferro e rame per poi rivenderli.

Ultimamente il prezzo è salito parecchio ed è diventato proprio un bel business. Ora, però, lo stato italiano ha introdotto le licenze. Ciò avvantaggia le nuove imprese che si affacciano sul mercato e sfavorisce le famiglie come la mia, che raccolgono materiali ferrosi da decenni. Spero che gli altri sinti qui riuniti mi diano una mano.» Antonio e Paulette sono fra quelli che credono in questo sentimento di solidarietà. «Non solo fra di noi.», ci tengono a sottolineare. Hanno un banchetto di frutta posizionato a un crocicchio nei pressi di Montpellier. «Lì ci conoscono tutti e noi conosciamo loro. Quelli che comprano le nostre mele e le nostre albicocche, per esempio, sanno che non siamo più nomadi. Anzi, visto dal nostro banchetto sono gli altri che non si fermano mai. Ma per conoscersi non bisogna avere fretta.» Già. E anche ascoltare le identità di un popolo richiede pazienza.

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