Ho atteso qualche giorno prima di tornare a scrivere, ancora partendo da me, dalla mia esperienza di questi mesi. Non vorrei eccedere, ovviamente, in un racconto che è iniziato all’indomani di un infortunio, il 25 ottobre scorso, che ha di fatto interrotto, per un tempo non ben definito, la mia autonomia personale, uno dei beni più preziosi e da me difesi con ostinazione, nella mia esistenza di persona con disabilità.
Il fatto è che del giornalista credo di aver mantenuto, negli anni, la curiosità e la certezza di dover sempre imparare qualcosa, apprendendo dall’esperienza, e non soltanto dalla teoria. Incontrando le persone, stabilendo relazioni umane, facendo domande, dialogando sempre, anche quando, come in questo caso, sono diventato di fatto un “utente”, oserei dire – mi si passi la citazione ghediniana – un “utilizzatore finale” di servizi di tipo sanitario o, adesso, di tipo assistenziale, che non sempre si ha l’opportunità di valutare sulla propria pelle.
Ho scritto a lungo dell’elevata qualità dell’équipe che ho incontrato all’Unità spinale di Niguarda, a Milano. In poche settimane ho trovato, attorno al letto 14, le risposte fondamentali per riprendere la mobilità minima, nonostante due gambe fratturate, e fragili, che necessitano tuttora di una cura e di una tutela premurosa per favorire, in tempi non biblici, il superamento di questo ulteriore handicap. A proposito, è curioso dover ragionare in termini di ulteriore handicap, quando la mia “certificazione” è già al cento per cento, per la sommatoria di differenti patologie, dall’osteogenesi imperfetta all’insufficienza respiratoria. Al momento, dunque, mi collocherei più o meno su un 120 per cento, ma se penso a chi è totalmente non autosufficiente, ho la conferma empirica che l’attuale sistema di valutazione delle disabilità richiederebbe una radicale revisione, non per ridurre diritti e servizi, ma per parametrarli correttamente rispetto alle funzioni di vita, alle capacità di organizzazione delle varie fasi dell’esistenza.
Adesso sto sperimentando, da una settimana, per la prima volta nella mia vita su di me, il servizio di assistenza domiciliare. Necessario, altrimenti non potrei, da solo, alzarmi dal letto, lavarmi, compiere le funzioni fisiologiche (che bella circonlocuzione…), vestirmi, raggiungere la posizione seduta nella carrozzina elettrica che mi consente, ora, di muovermi in sicurezza. Il servizio, garantito dal Comune, viene erogato da operatori che lavorano per una cooperativa sociale di grande esperienza. Ho conosciuto così William, Alessandro, Lorenzo, Eugenio.. Sono entrati nella mia casa, e assieme a me hanno organizzato, pianificato, concordato fin nei minimi dettagli, ogni piccola operazione da compiere su di me, con me. Professionisti, ma anche uomini appassionati del loro lavoro così speciale. Sono sicuro che non si comportano al meglio solo con me, anche perché non si potrebbe davvero improvvisare una efficienza unità a umanità a questi livelli.
In pochi giorni mi hanno fatto riacquistare fiducia in me stesso, nelle mie possibilità di ripresa, e di vita. Abbiamo chiacchierato, scherzato, sempre “lavorando” attorno al mio corpo, alla mia persona. Ho notato quanto siano, tutti, attenti ai dettagli, alle modalità di uso del sollevatore o della sedia “comoda”, perfino alla temperatura dell’acqua nel momento in cui mi aiutano a fare la doccia, o a lavarmi i capelli. Arrivano con puntualità cronometrica, e non so come facciano, tenendo conto del traffico di Milano. Scandiscono le mie giornate senza essere invasivi, pur sapendo che la loro è comunque una intrusione in una storia, in una esistenza che fino a pochi giorni fa non conoscevano. E poi entrano in altre case, in altre famiglie, con storie diverse, bisogni differenti, ma uguale esigenza di affidabilità e di professionalità.
Anche questi sono italiani (Eugenio, in verità, è di origine ucraina, ma parla un italiano fluente, congiuntivi compresi). Sono italiani dei quali essere orgogliosi, perché hanno scelto un lavoro difficile, delicato, stressante, e lo svolgono con passione e, direi, allegria.
Penso dunque che le cose non accadano mai del tutto per caso, anche quando vorremmo, ovviamente, evitare guai. A pochi giorni dagli Stati generali del Welfare, a Milano, previsti dall’assessore Pierfrancesco Majorino il 2 e 3 dicembre, non so ancora se sarò in grado di essere fisicamente presente in modo proficuo e dignitoso. Ci proverò. Ma una cosa è certa. Penso che per la disabilità, non solo a Milano, occorra un forte ripensamento dei servizi, puntando con decisione proprio a una mappa dei progetti possibili attorno alla singola persona con disabilità, tenendo conto di quanto prevede, con grande precisione, la Convenzione Onu. Partire dalle persone, dalle loro aspirazioni, dalle cose che possono fare e desiderare, e non solo calare una strumentazione di “prodotti” sicuramente importanti, ma costruiti nel tempo forse partendo da una visione ormai in parte superata, quella della “prestazione”, della “classificazione”, della tipologia standardizzata di risposte, possibilmente collettive, e solo in parte costruite attorno al singolo cittadino disabile, che in fin dei conti chiede soprattutto di poter vivere normalmente, con le minori difficoltà possibili, migliorando la propria autonomia, stabilendo il maggior numero di relazioni e di opportunità di vita, di mobilità, di lavoro, di divertimento.
Occorre, io credo, uno scatto di orgoglio e un patto di collaborazione nuovo fra tutti i soggetti interessati alla vita delle persone con disabilità, specie quando siamo alla vigilia di tagli strutturali agli stanziamenti destinati ad alimentare i servizi sin qui faticosamente erogati o inventati di giorno in giorno. Genitori, operatori, amministratori, associazioni, devono tutti confrontarsi con i diritti della singola persona con disabilità. Rimettere la persona al centro, senza stanchezza, senza paura di cambiare, di sperimentare, di innovare.
Una cosa è certa: non partiamo dal vuoto, ma da una cultura, tutta italiana, di leggi e di diritti, di servizi e di professioni. Difendiamola, soprattutto dai pregiudizi, e dall’idea che questo mondo non sia una risorsa, anche economica, ma solo un fardello.
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