Volontariato

Dal capitalismo al comunitarismo fondazionale

Le Fondazioni, più che mai, sono oggi istituzioni di riferimento e devono incorporare nel loro orizzonte simbolico l’istanza di riprodurre comunità. Il caso della Fondazione CRC, protagonista di un distretto della rigenerazione con investimenti diretti in città e nella "provincia Granda"

di Aldo Bonomi

Le pratiche di territorio che Vita ha raccolto nello speciale che ha dedicato, nel numero di aprile alla "provincia Granda" e a Fondazione CRC, ci dicono di cosa può quello che chiamo comunitarismo fondazionale. Vorrei però ingaggiare il discorso partendo un po’ più da distante.

La provincia di Cuneo, la “Granda”, tra quanti di noi si sono occupati per professione e per passione di sviluppo dei territori, rappresenta da oltre due decenni un piacevole rompicapo. Fino al secondo dopoguerra era il parente povero, il cugino di campagna di quella Torino che costruiva la produzione di massa, svuotando le campagne settentrionali prima, le terre dell’osso meridionali poi.

Senza scomodare Fenoglio e Nuto Revelli, i vinti e la malora ne erano rispettivamente il prototipo umano e la forma della vita quotidiana. Poi arrivarono le industrie, sia quelle in fuga dalla congestione fordista (la Michelin, i treni a Savigliano, altri stabilimenti ora in mano a multinazionali) sia quelle originate localmente poi divenute leader mondiali (Ferrero), o medie e grandi aziende di successo (gomma, macchine per il vetro, per la viabilità, abbigliamento, trasporto, carta, agroindustria, ecc.). Solo alla fine del secolo scorso però ci accorgemmo tutti che, laddove la grande (Torino) e le piccole (Ivrea, Biella) company town perdevano imprese, occupati, abitanti, il “secondo Piemonte” stava diventando una “storia di successo”.

Là si esauriva la spinta del big capitalism, e le macerie della sua ritirata tuttora ne segnano il paesaggio, qua si prosperava nella varietà produttiva, nella mobilitazione comunitaria, nella complementarietà tra reti lunghe ed economia locale. Si solidificava un agglomerato “di mezzo” in cui tratti culturali e pratiche di mercato sfumavano gli uni nelle altre, con aspetti distintivi nella cultura del lavoro e in un certo conservatorismo pragmatico, capace di abbracciare il nuovo “rigenerando” le radici.

Non stupisce che “rigenerare” sia parola-chiave nei progetti accompagnati dalla Fondazione originata dalla vecchia Cassa di Risparmio di Cuneo nonché paradigma, nella triplice crisi economica, pandemica e climatica, con cui Carlo Petrini ridisegna le prospettive del presente. Cuneo, negli anni d’oro, cresceva combinando le vigne che danno nome ai rossi al vertice dell’eccellenza mondiale, che attiravano residenti, turisti, nuove imprese terziarie, eventi, un paniere di filiere agricole di qualità con pochi eguali, l’umanesimo industriale dei Ferrero e di altri meno conosciuti. Soprattutto, cresceva “rigenerando”: cos’altro fu Slow Food se non l’intuizione preveggente per cui il futuro dei territori sarebbe stato molto più nelle comunità del cibo che nell’high tech, sebbene oggi proprio il food incorpori tanta tecnologia a sé ancillare?

L’anomalia di Cuneo non si poteva spiegare con gli assunti e le credenze condivise tra gli economisti. Livelli educativi contenuti (oggi risaliti), poca brevettazione e meno ancora ricerca e sviluppo, una terziarizzazione senza i cosiddetti knowledge intensive service. Il contrario, per dirla in breve, dei fattori che nel consensus degli economisti sono considerati la base del vantaggio competitivo di una moderna economia.

I sociologi di Torino ci dedicarono una ricerca e risposero (banalizzo per semplicità) che Cuneo e le Langhe erano deboli in economia della conoscenza (basata sulla tecnoscienza), ricchi in economia dell’apprendimento (basata sull’intimità dei nessi, avrebbe detto Beccattini, e sul saper fare). Da qui vorrei ripartire. Apprendimento, legame, connessioni sociali, che si nutrono della prossimità e proprio per questo sono in grado di usare, ma a proprio vantaggio, la simultaneità delle reti globali. Tracce di comunità avrebbe detto qualcuno, ma forse le “tracce” sono parola incompleta: comunità non è qui un residuo del passato sopravvissuto all’assalto della storia, ma forza “rigenerativa” che riproduce senso, reddito, riconoscimento. Tanti capaci interlocutori mi hanno spiegato mille volte che Cuneo tiene perché ha un’economia varia, in grado di ammortizzare le crisi settoriali e di attivare ulteriore varietà correlata. E’ vero, ma è un pezzo della storia. La sua base sostanziale risiede nella comunità e nelle sue istituzioni.

Sul territorio vi sono buone scuole e buone amministrazioni, sindaci visionari finanche nell’Alta Langa, dove forse domani giungeranno i vigneti sospinti in quota dal climate change, e nelle valli alpine senza impianti sciistici ma percorsi da vivere rasoterra, tra un borgo e l’altro. L’associazionismo è forte, come il volontariato territoriale e ambientale, in una terra periodicamente devastata da alluvioni e smottamenti, e anche il vecchio associazionismo economico è più vivace che altrove. Il policentrico disegno urbano delle “sette sorelle” (da Cuneo ad Alba, da Fossano a Saluzzo, da Bra a Mondovì a Savigliano) ha distribuito welfare e reti creditizie, oggi assorbite nel risiko bancario post Lehman Brothers, sebbene il credito cooperativo e la banca locale qui contino ancora.

Soprattutto, hanno consegnato una rete di Fondazioni bancarie con pochi eguali nel paese. Le storie raccolte in questo dossier pongono in primo piano l’operato di Fondazione CRC: protagonista della rigenerazione con gli investimenti diretti in città, gli ex Frigoriferi Militari come distretto educativo e culturale, e nelle colline del Barolo, in cui il valore incorporato nella terra è usato per restituire beni alla comunità che quella terra, che oggi si vende a prezzi da gentrification milanese, ha trasformato e curato negli anni (se vi piace di più, chiamatelo give back).

Oppure, per sostenere impresa sociale, per fare comunità educativa, per mobilitare la comunità nel riprendersi il paesaggio, come nel muro di Monticello d’Alba trasformato congiuntamente da artisti (in una provincia dove Sol Lewitt e David Tremlett sono stati chiamati dai grandi vinificatori per ridisegnare la vecchia cappella immersa nelle vigne), abitanti e dall’edera, in un progetto che a me evoca suggestioni da rovine di Simmel.

Una Fondazione, la settima in Italia per patrimonio, capace, con il suo vitale Centro Studi, di dare sostanza all’assioma per cui il territorio prima lo si pensa, poi lo si abita. Tanti progetti però sono stati promossi, congiuntamente e in proprio, anche dalla Fondazione CRT, che proprio sull’asse tra Piemonte metropolitano, intermedio e dei comuni-polvere sta ridisegnando il proprio posizionamento. E poi, alcune Fondazioni “polvere”, sospese tra scelte differenti, che vanno dall’accorpamento alla rivendicazione orgogliosa della propria identità.

Storie che ci raccontano della metamorfosi sotto traccia di queste istituzioni. All’indomani della “legge Amato” che le istituì nel 1990 e per molto tempo, il legame con il mondo finanziario di cui potevano essere considerate “braccio sociale” o “cinghia di trasmissione”, ne legittimava la descrizione in termini di capitalismo fondazionale. Non era un insulto, almeno per quanti hanno avuto sempre chiaro che il capitalismo è da sempre un sistema di delicati equilibri tra produzione e riproduzione. Questa prospettiva rimane al centro delle istituzioni filantropiche, che hanno nella manutenzione delle agenzie riproduttive il senso della loro missione. Di acqua sotto i ponti tuttavia ne è passata molta, da allora, e con essa anche due crisi economico-finanziarie, la seconda intrecciata al collasso pandemico a sua volta connesso con la crisi climatica.

Cuneo non ha percorso indenne questi tornanti. Anche qui il mondo dell’impresa agganciata alla domanda estera si è disallineato rispetto all’economia di tutti i giorni, il lavoro autonomo è entrato in crisi, il reddito medio moderatamente ridotto. E la pandemia ha disseccato, almeno temporaneamente, la risorsa del turismo. Nella crisi il territorio ha però fatto leva sulla sua risorsa più preziosa, il senso e l’agire di comunità, appunto. E su queste basi può oggi pensare la propria modernizzazione, adoperando in modo credibile le parole che occupano il centro del vocabolario dei nostri giorni: sostenibilità, competenza, cittadinanza attiva.

Le Fondazioni, più che mai, sono oggi istituzioni di riferimento delle comunità e devono incorporare nel loro orizzonte simbolico l’istanza di riprodurre comunità. Comunitarismo fondazionale, dunque, come pratica insieme di modernizzazione fondata sulle obbligazioni verso il territorio, e come logica istituzionale in grado di rafforzarne ulteriormente il ruolo.

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