Mondo

Dai vostri inviati in palestina

Un gruppo di cooperanti italiani confeziona un notiziario di controinformazione dai territori in guerra.

di Gabriella Meroni

Eretz, la porta del purgatorio, un purgatorio chiamato Striscia di Gaza. Un posto in una condizione indefinita, dove hanno aspettato il cambiamento e dove, dopo dieci anni di speranza, forse ora non sperano più. Jabalia ti colpisce subito per due cose. Il grigio e la polvere mista a sabbia. Il grigio dei muri, con i mattoni forati a vista, e il grigio delle lamiere sui tetti delle baracche. Ma non servono per gli attrezzi agricoli. Ci abitano esseri umani. Cinque, sette, dieci per stanza, i materassi uno sull’altro durante il giorno per fare spazio, la notte tutti insieme per terra. E poi la sabbia. Ovunque». Ogni giorno, aprendo l’email in redazione possiamo trovare un brano così. Un reportage dalla Palestina che forse nessuno leggerà sui grandi quotidiani, ma che sembra scritto apposta per loro. A firmare questo, la settimana prima di Pasqua, e tanti altri è Lino Zambrano, 47 anni, un cooperante italiano della ong Aicos, a Gerusalemme dal 1991. L’idea di inviare via email ad amici e giornalisti un diario “di guerra” gli è venuta una sera di ottobre, dopo che i territori si erano infiammati per l’intifada, e Lino scopriva su giornali e tiggì italiani notizie che stridevano con la realtà. «Leggevo avvenimenti che i miei occhi avevano visto accadere in modo diverso. E ho detto basta, qui bisogna dire la verità». Nasce così il notiziario Cooperanti Palestina, inviato a 800 indirizzi «ma letto da molti di più». Le giornate di Lino, che di mestiere sarebbe impiegato alle Finanze (oggi in aspettativa) si dividono tra la mattina, in cui segue l’attività di cooperazione sul campo – Aicos sostiene diversi progetti nelle scuole, tra cui un istituto per ragazze cieche a Ramallah – e il pomeriggio, quando rientra in ufficio a Gerusalemme Est e accende il computer. Trasformandosi nel caporedattore del notiziario. «Di solito trovo già molte email che mi informano sulle novità della giornata», ci dice dal cellulare mentre si sposta a Gerico. «Altre notizie le portano gli amici. Quando per esempio hanno bombardato una scuola a Labire sono stato il primo a saperlo: mi ha telefonato il direttore». Con Lino ci sono Dina Taddia del Gvc, Giorgia Garofano di Nexus, Paola Baumgarten di Movimondo, Carla Pagano e Gianluca De Luigi del Cric, Carla Benelli del Cis… tutte sigle di ong, tutti amici che in Palestina si ritrovano spesso la sera a chiacchierare, e sono una specie di comunità. E che insieme a Lino hanno vinto il premio giornalistico Mosaico della solidarietà, promosso da Vita, come veri cronisti… «Massì, ci abbiamo anche sorriso», continua Lino con il suo accento campano così fatalista, così diverso da lui. «Perché non siamo professionisti, ma appassionati. Ognuno di noi avrebbe potuto rientrare in Italia, un po’ per motivi di sicurezza, un po’ per stanchezza. Eppure abbiamo scelto di restare. La sfida della controinformazione ci piace troppo». Lino sottolinea la parola controinformazione. Così a chi gli contesta di essere filopalestinese, o di non riportare alcune notizie, risponde a muso duro: «Non sono un giornalista, non ho l’obbligo di raccontare tutto. Cerco di capire cosa “passa” e cosa no. Quello che non passa, lo racconto, così come lo vedo. Il problema è gli israeliani sono più attrezzati, anche tecnologicamente, e le loro fonti sono più ascoltate. Noi tentiamo di riequilibrare. Ma cerchiamo anche le voci israeliane, e siamo sconvolti se muore un bambino, chiunque sia». Come nel caso di Shavelet, la bimba israeliana di 10 mesi uccisa a Hebron da un cecchino palestinese, di cui tutti i giornali in Italia hanno pubblicato la foto. Quel giorno Lino ha battuto con più furia sui tasti del suo computer: «Non ricordiamo lo stesso pathos su Repubblica nel raccontare la morte del bambino di nove anni che ad Al Bireh giocava in casa. Cosa avevano in comune? Essere bambini innocenti? Cosa avevano di diverso? Lei israeliana, lui palestinese. È questo che per Repubblica fa la differenza? La morte di un bambino di 11 anni, lo stesso giorno, a Hebron è liquidata in due righe…». Inevitabile chiedergli se ha paura. Paura delle armi – poco dopo la nostra conversazione, Gaza subirà un durissimo bombardamento -, delle minacce… «Non ho paura quando sono in mezzo alle persone che conosco, nei luoghi dove lavoro». C’entrerà forse il suo accento, con cui sa sdrammatizzare tutto, eppure sembra davvero che non abbia nessun timore. E sì che un mese fa è andato di persone sulle cronache dei giornali che legge così avidamente, quando fu colpito da una bomba-suono israeliana mentre assisteva a una manfestazione di donne palestinesi. La detonazione gli ferì una gamba, e fu il console italiano in persona a portarlo in ospedale. E adesso? «Adesso l’infiammazione è passata. Massì, che non è niente…». Per richiedere il notiziario: info@cocis.it


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