Famiglia

Dai nostri inviati davvero speciali. Tre donne contro i cingolati

Da Ramallah, Piera Redaelli. Da Gerusalemme, Liora Lopian. Da Gerusalemme, Francesca Ciarallo. Il racconto della loro esperienza in Israele e Palestina

di Redazione

Da Ramallah, Piera Redaelli Quei buchi nel muro Il racconto che segue è di Piera Redaelli, responsabile di Terre des hommes Italia per la Palestina, dove la ong è presente dal ?98 con progetti per i bambini del campo profughi di al-Amari a Ramallah e di Gerusalemme Est. Al-Amari è abitato dai rifugiati delle aree evacuate nel 1948; qui Tdh Italia, con la ong locale Bisan Centre of research and development, ha avviato un progetto (finanziato anche con il sostegno a distanza) di recupero e aggregazione per bambini cresciuti in condizioni difficili. Sono arrivata ieri a Ramallah, passando a piedi con le mie valigie per un sentiero scosceso. I soldati israeliani del check point di Qalandya, armi in pugno, continuano a impedire l?uscita e l?entrata della gente nella cittadina, anche se i carri armati che la occupavano si sono ritirati. Appena arrivata ho parlato con Izzat, il direttore del Centro Bisan, l?ong palestinese che lavora con noi nel campo di al-Amari. Izzat mi ha detto che uno degli scout di al-Amari è stato ucciso da un cecchino israeliano e che molte case dei bambini sono state semidistrutte dall?esercito. Ho deciso quindi di andare a rendermi conto di persona di quello che è successo. Sulla strada che porta al campo profughi fervono i lavori. I carri armati accompagnati da scavatrici hanno rimosso l?asfalto e scavato trincee per impedire alle macchine e alla gente di muoversi. Il ministero dei Lavori pubblici dell?Autorità palestinese è all?opera per ripianare le strade. Gli operai dell?Unrwa, l?agenzia Onu responsabile dei campi profughi dove vivono dal 1948 i palestinesi, rimuovono carcasse di auto e macerie. Arrivo ad al-Amari. La serratura della porta del Club dei giovani è stata fatta esplodere. Al piano terreno, invece, i soldati non sono entrati dalla porta ma hanno aperto una breccia nel muro. Ripercorriamo il loro cammino. Dovunque desolazione: carte sul pavimento, armadi fatti a pezzi, trofei sportivi mutilati, tute imbrattate o ridotte a stracci. In un angolo di una stanza c?è il fax che avevamo appena comprato, reso inutilizzabile da una pallottola di fucile. Nel campo da giochi che Terre des hommes ha attrezzato, un bambino si dà da fare per ripristinare un?altalena che il peso dei soldati ha scardinato dai sostegni. Per terra cartacce, avanzi di cibo e bottiglie. Di breccia in breccia ci muoviamo verso gli uffici dell?Unrwa. Lì i soldati si sono fermati, ci racconta il vecchio Abu Yussif che sta sull?altro lato del vicolo. «Hanno lanciato sassi contro la nostra porta, intimandoci di uscire. Poi mi hanno messo alla testa del gruppo, in modo che facessi loro scudo mentre passavano dall?altro lato. Quindi sono entrati in casa mia». Incontriamo Jamila, una dei 102 bambini del campo che frequenta il doposcuola e riceve cure grazie all?aiuto di famiglie italiane. Insiste per farci vedere la sua casa. «Ci hanno chiuso in una stanza per 24 ore senza acqua, cibo e luce, intanto che aprivano brecce nei muri della nostra casa, per passare in quella dei vicini. Venite a vedere». Seguiamo Jamila per il campo, che negli anni si è trasformato in un labirinto di vicoli: impossibile ritrovarcisi se non lo si conosce bene. «I soldati avevano una mappa», ci informa la madre di Jamila. «Quando gli ho detto che potevano passare dalla porta, hanno insistito per demolire il muro. Erano gli ordini». Ovunque muri sventrati, mobili fatti a pezzi, abiti calpestati. «Cercavano gli uomini», ci dice la nonna di Jamila. Sui muri delle casupole visitate, i soldati hanno tracciato con la vernice bianca una stella di Davide e un numero. Ho un attimo di smarrimento. Le immagini si accavallano davanti ai miei occhi. (Piera Redaelli) Da Gerusalemme, Liora Lopian Ascoltami, Israele Taayush (in arabo ?vivere insieme?) è un?ong israeliana che combatte l?ineguaglianza tra israeliani e arabi e vuole far cessare l?occupazione dei Territori. Ha mille attivisti e 4 sedi, di cui una a Gerusalemme. Si occupa anche di portare aiuti negli ospedali. Sono un?attivista di Taayush. Un?israeliana che ha deciso di battersi per difendere la pace e i diritti di tutti quelli che abitano nel mio Paese: palestinesi compresi. Un compito certo difficile, in momenti in cui la pace è un?utopia agli occhi dei più e i nazionalismi sembrano avere il sopravvento, ma noi di Taayush ci battiamo per vivere insieme e creare una società unita, eguale e giusta. Nei giorni scorsi ho portato un po? di sollievo a chi soffre nell?ospedale di Ramallah, sotto assedio da giorni, distribuendo generi alimentari di prima necessità. Assieme ad altre donne appartenenti al mondo dell?associazionismo israeliano, provenienti da gruppi eterogenei. Perché? Semplice: ci sentivamo in dovere di fare qualcosa come persone. Ora sono tornata a casa, a Gerusalemme. Lottare per la pace, in una parte del mondo che sembra essere precipitata nella guerra aperta, è un casino. In tempi di guerra le autorità sono sempre più violente. Pensate che una nostra marcia contro la guerra ad a-Ram, con oltre 2mila attivisti appartenenti anche ad altre organizzazioni israeliane per la difesa dei diritti umani, tra cui Physicians for human rights, Gush shalom e Bat shalom, è finita in rissa, con annesso lancio di lacrimogeni da parte dell?esercito. Incredibile, se si pensa che noi ?pazzi? pacifisti volevamo solo portare aiuti e medicine a Ramallah. Ma i problemi investono anche la comunicazione di chi si batte per la pace. È dura raggiungere il cuore della mia gente attraverso i mass media, perché ogni parte in guerra diventa più nazionalista, più irritata nel sentire le istanze dell?altra parte. Ogni popolo pensa: «Ci stanno assassinando, dobbiamo reagire», e così senza rendersene conto giustifica la guerra totale. Nonostante il disinteresse, però, Taayush va avanti. Ogni giorno organizziamo una dimostrazione perché il massacro abbia fine. E presto andremo a Jenin a portare aiuti umanitari. (Liora Lopian) Da Gerusalemme, Francesca Ciarallo Lo sguardo di Mila pacifista disperata «Siamo qui per pregare e cercare il cammino della pace e creare un ponte tra i popoli»: così don Oreste Benzi, appena arrivato a Gerusalemme il 9 aprile scorso assieme a un gruppo di volontari. Tra loro c?era anche Francesca Ciarallo, dell?Operazione Colomba, al suo terzo viaggio in Palestina. La prima immagine della Città Santa è quella dei bambini che giocano nel sole sul prato sotto la porta di Damasco. Hanno tutti in mano armi giocattolo, alcune costruite con cannucce di bibite. Sono violenti, aggressivi, uno prende un altro al collo e stringe? io tiro fuori la macchina fotografica, ansia di documentazione, mi vedono, si mettono a strillare, due mi vengono addosso e mi strattonano. Io mi spavento, loro ridono. All?improvviso è il caos. Dalla porta esce un gruppo di soldati israeliani. Trascinano un ragazzo con le mani legate dietro la schiena e la testa bassa. I bambini corrono verso il gruppo, i soldati li respingono a calci, dietro arriva un gruppo di donne in lacrime. Chiedo cosa succede, un ragazzo risponde che hanno appena arrestato un ?terrorista?. Sento una grande amarezza. Siamo arrivati a Gerusalemme nella mattina. Quaranta minuti di autobus da Tel Aviv, tre ore per trovare la Porta di Damasco. Arrivati alla stazione centrale, il solito controllo, passaporto, apri lo zaino, che fai qui (è già il terzo in 24 ore). Pensavo di essere preparata, ma non mi aspettavo una tale militarizzazione. Soprattutto mi colpiscono le donne soldato, con la faccia da adolescenti. Chiedo informazioni: come si arriva a Damascus Gate? Alcune risposte confuse, altre imbarazzate, qualcuno arrabbiato: non esiste nessuna Damascus Gate! Non capiamo, siamo perplessi. Dopo due ore siamo stanchi e demoralizzati. Con un taxi raggiungiamo la porta di Damasco (nessuno ci ha detto che ci sarebbero voluti pochi minuti a piedi). In seguito un amico mi ha spiegato che non puoi chiedere a un israeliano della porta di Damasco, che è il centro di Gerusalemme Est, la parte araba. Al limite puoi usare il nome ebraico. Dare un quadro d?insieme di Gerusalemme in poche parole è impossibile. C?è la Gerusalemme araba e allegra della mattina, dei mercati e dei carretti di cibo per strada, dove devi contrattare sul prezzo di qualsiasi cosa. La stessa che dopo le sette di sera diventa vuota, i negozi chiusi, in un tacito coprifuoco. C?è quella israeliana della Jaffa Road, regolare, trafficata, con i ristoranti e i bar presidiati da militari. A differenza della parte araba, in quella israeliana non riesco a sentirmi sicura. È evidente il terrore in cui vive la società israeliana. Quando telefono a Mila, un?amica israeliana che si è trasferita qui trent?anni fa, inseguendo il sogno dello Stato sionista e le chiedo di incontrarci in un bar a Damascus Gate mi risponde: «Ma che sei matta! Vuoi vedermi morta!». Ci incontriamo in un ristorante italiano in Kikar Safra. Lei è un?ex giornalista e, nonostante sia convinta di essere pacifista e nonviolenta, una sera a settimana svolge un servizio civile volontario armato nel suo quartiere. La paura gliela leggi negli occhi, nel modo di parlare, nel nervosismo con cui muove le mani. Parla degli attentati, del panico che la prende ogni volta che i figli escono di casa, della mancanza di normalità di una vita in cui non puoi neppure andare al cinema. Ritiene che le responsabilità del conflitto stiano da ambedue le parti, che Israele debba ritirarsi dai territori occupati ma non ora, la società israeliana non lo accetterebbe a causa del terrorismo e dell?ansia (giustificata) di sicurezza da cui è ossessionata. (Francesca Ciarallo)


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