Non profit

Dai corsi ai percorsi

Come rilanciare uno strumento essenziale nei periodi di crisi

di Sara De Carli

Voucher mirati, valorizzazione dell’apprendistato, meno aula e più impresa: le idee di Sacconi per dire basta a una tradizione di inefficienza Un sistema che «non ha una testa», largamente «drogato» dalle risorse del Fondo sociale europeo, caratterizzato da «ampia insoddisfazione e oggettiva inefficienza». Il Rapporto sul futuro della formazione in Italia, realizzato da una commissione guidata da Giuseppe De Rita e presentato a metà dicembre dal ministro Maurizio Sacconi, è impietoso. Un quadro nerissimo per un segmento che invece dovrebbe essere, soprattutto in un periodo di crisi, una leva fondamentale per l’occupabilità delle persone, la mobilità sociale, la crescita competitiva del Paese. La riqualificazione del sistema formativo non sarà la panacea universale, ma certo è una strada concreta. Anche perché il 2010 presenterà il conto di almeno 400mila disoccupati di ritorno che, finita la mobilità e la cassa integrazione, dovranno cercare un’alternativa. Insomma, la formazione come bisogno diffuso, trasversale, permanente.
La sfida il ministro Sacconi l’ha raccolta, annunciando che «il 2010 sarà l’anno della formazione». Non solo per i giovani, «ma anche per gli adulti inattivi». In campo ci sono 2,5 milioni di euro: più della metà viene dal Fondo sociale europeo, 600 milioni dai fondi interprofessionali e altri 650 da Stato e Regioni. Obiettivo dichiarato, quello di avere entro febbraio-marzo un «nuovo accordo fra Stato, Regioni e parti sociali» per «cambiare drasticamente il modo di fare formazione».

Questione di benchmark
«I fallimenti del sistema sono dimostrati da tanti indicatori, non ci voleva il Rapporto per dirlo», commenta amaro Natale Forlani, ad di Italia Lavoro e membro della commissione De Rita. I benchmark sono quelli del Trattato di Lisbona, che prevedono che nel 2010 in tutta Europa il 12,5% della popolazione partecipi ad azioni di formazione continua: l’Italia è al 6,2%, contro una media europea del 9,6% (il Regno Unito è al 26,6%). Le proiezioni Ue dicono che nel 2020 un terzo dell’occupazione richiederà alti livelli di istruzione e qualificazione, ma l’Italia di persone così sul mercato del lavoro ne avrà solo il 17,5%, con metà dei suoi lavoratori privi delle competenze richieste dalla nuova economia della conoscenza.
«Il problema dell’Italia non è la mancanza di risorse», precisa Forlani, «ma l’inefficienza, per via di un sistema centrato più sui produttori di formazione che sugli utilizzatori – imprese e lavoratori. Per il 2010 ci sono nuove risorse che verranno utilizzate in nuovi modi, ma il problema vero è cambiare il paradigma culturale».

Il piano d’azione
Le linee di azione portanti ci sono già e sono tre. Primo, considerare il lavoro come «parte essenziale di tutto il percorso educativo di crescita della persona». Sembra filosofia, ma per i 400mila lavoratori di cui sopra vuol dire «pensare a una formazione mirata al loro bisogno formativo. Per dirla con uno slogan, non più corsi ma percorsi personalizzati, con voucher formativi mirati». Italia Lavoro nel 2009 lo ha fatto per 17mila persone.
Addio alle aule: «L’impresa diventa la sede privilegiata della formazione su misura del singolo». Ed è il secondo punto. Il piano 2010 prevede – accanto ai voucher e ai percorsi tarati sulle persone – la valorizzazione dell’apprendistato, il rilancio dei contratti di inserimento per gli over 50, accordi di formazione-lavoro per il rientro anticipato dei cassintegrati, rafforzamento dei fondi gestiti dalle parti sociali.
La terza leva sarà la certificazione di quanto appreso (anche) nei canali informali, perché «è una mezza verità» quella per cui la spesa delle imprese italiane nella formazione continua è inferiore alla media europea (1,3% del costo del lavoro contro 1,6%, per l’Eurostat): «Nelle piccole e medie imprese non c’è una voce specifica di spesa e così sottovalutiamo il processo di trasmissione delle conoscenze che avviene dentro le aziende. Certo è il momento di rendere visibile tale dimanica».

Il rischio addestramento
Maurizio Drezzadore, presidente di Enaip, l’ente di formazione professionale delle Acli, le sfide del sistema le vive ogni giorno. Per questo saluta con favore l’«indispensabile obiettivo di riorganizzare la formazione in Italia», ma a Sacconi gira pure un monito: «Attenti a non cadere nella trappola dell’addestramento». Addestramento è il rischio in agguato in un periodo di crisi, cioè la «tentazione di considerare la formazione come la ricetta per tappare le emergenze, anziché costruire un sistema stabile ed efficiente».
Per evitare il rischio Drezzadore individua tre punti fondamentali: potenziare la formazione professionale dei giovani, «quasi un quarto dei nostri non ha un diploma perché non trova canali alternativi alla scuola». Un dramma di per sé aggravato dal fatto che «chi non raggiunge una soglia adeguata di formazione in età giovanile, da adulto è tagliato fuori: la poca formazione permanente che si fa in Italia e quella finanziata con i fondi interprofessionali riguarda dirigenti, quadri, impiegati, non chi avrebbe invece più bisogno di essere formato».
Secondo punto, l’estrema disomogeneità dell’offerta sul territorio italiano, dovuta alla mancata definizione di livelli essenziali delle prestazioni stabiliti a livello centrale e al fatto che «l’allocazione delle risorse dei fondi interprofessionali avviene in base ai versamenti delle imprese, con una differenza di risorse tra Nord e Sud». Infine, la riqualificazione degli attori: «Oggi è più facile essere accreditati come formatori che avere una licenza da tabaccaio», estremizza Drezzadore. «La formazione del futuro avverrà in luoghi molteplici, perciò è fondamentale la certificazione delle competenze, creando un registro nazionale di certificatori e selezionando i formatori con criteri più rigidi».


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