Volontariato

Dagli Usa un grido: non abbandonateli

Un’associazione raccoglie le storie dei malati di Creutzfeldt

di Gabriella Meroni

La Ue sorveglia la malattia dal ?93. La nazione con più malati è la Germania, la Francia ha il record di mortalità. Ma i casi più preoccupanti sono Oltremanica «Questa è la storia di un angelo, mio marito Jd». Comincia così una delle tante storie di persone colpite dalla Creutzfeldt-Jacob raccolte dalla Cjd Voice, un?associazione americana che riunisce circa 400 famiglie di malati. Malati che oggi non ci sono più ma il cui ricordo aiuta i loro cari a combattere per uscire dal silenzio e raccogliere prove sulla diffusione della malattia. Per convincere il governo a finanziare ricerche per possibili terapie e togliere i nuovi malati dall?isolamento. Un isolamento che in Italia continua, benché – è facile immaginarlo – le storie dei malati si assomiglino tutte. «Jd era un uomo socievole» scrive la moglie, Dolly Campbell. «Sempre sorridente e disponibile. Era abituato alla vita dura e non si lamentava mai. Nel marzo del 1996 mi disse che si sentiva le gambe deboli e subito dopo la sua mano destra cominciò a tremare. Alla fine del mese la sua personalità cominciò a trasformarsi, e affiorò in lui un Mr. Hyde che non conoscevo». L?aggressione della malattia è improvvisa e terribile, un colpo durissimo per i familiari. Persone adorabili e affettuose che si trasformano, diventando irascibili e violente, oppure al contrario chiuse, cupe, insensibili. «La prima volta che mi accorsi che qualcosa non andava in mio marito Guy fu il 13 ottobre 1998» racconta Betty da Surfside Beach, California. «Quel giorno lo portai in ospedale per alcuni esami e lui mi accusò di non averlo portato nel solito posto, ma in un?altra città e in un altro ospedale. Dopo qualche ora tornò in sé, ma in seguito ebbe sempre più frequenti vuoti di memoria e allucinazioni. Vedeva bambini che giocavano, una donna che cullava un neonato su una sedia a dondolo… Nei momenti di lucidità mi diceva che da mesi aveva quelle visioni, ma non ne aveva mai parlato per paura che lo prendessimo per pazzo». «Era il compleanno di mia figlia, e durante la festa mi accorsi che mio padre era silenzioso» è il racconto di un altro parente. «Al momento pensai che fosse solo stanco. Qualche giorno dopo mia madre mi telefonò dicendo che papà non aveva voluto uscire perché non era riuscito ad allacciarsi le scarpe. Dopo 28 giorni morì». Non tutti i malati hanno però la ?fortuna? di soffrire così poco. Ce ne sono alcuni che sopravvivono per mesi, in mezzo a molte sofferenze. E spesso anche all?incompetenza dei medici. È ancora la storia di Jd Campbell: «La notte era agitato da tremori incontrollabili. Non riusciva più a guidare e neppure a scrivere. Ogni tanto ritornava il Jd di sempre e si rendeva conto di avere bisogno di aiuto. Diceva di sentirsi agitato e impaurito e di non sapere perché. Ma questi momenti erano sempre più rari. I medici lo imbottivano di tranquillanti. Poi capirono, ma ormai era troppo tardi. Il giorno del Ringraziamento lo portai a casa di amici: pensavo che una giornata in compagnia gli potesse fare bene, ma mi sbagliavo. I nostri amici lo guardavano come un relitto umano, lui non riconosceva più nessuno. A un certo punto gli passai una tazza di té, ma lui la respinse dicendo: ?ci sono degli scarafaggi dentro?. Io gli giurai che non c?erano, e per provarglielo bevvi un po? di té dalla tazza. Lui rispose: ?ce li hai messi tu in quella tazza?». «Un giorno mio padre si ammalò» scrive Lisa, che firma anche con l?e-mail (a.rice@gte.net) e sollecita altri familiari di malati a scriverle. «Ma i dottori non riuscivano a capire che cosa avesse. Di notte urlava come se volesse scacciare i demoni che erano venuti a prenderlo. ?Papà sta morendo?, mi diceva la mamma. Ma come si fa a capire quando sei ancora una bambina? Ormai è passato molto tempo, e ancora non riesco a pensare alla sofferenza che lo portò via a soli 43 anni. Non vorrei mai che i miei figli soffrissero quello che ho sofferto io». Scrivere, mettere nero su bianco esperienze così devastanti aiuta a superare lo strazio e fa sentire meno soli. Come testimonia Laura, 42 anni, dal Connecticut: «Mio padre è morto da anni, eppure non ho mai conosciuto nessuno che sapesse che cos?è la Cjd, a parte voi del gruppo. Ringrazio Dio di avermi fatto incontrare la Cjd Voice, e grazie a voi per avermi permesso di condividere la mia storia e il mio dolore». I componenti dell?associazione vogliono anche dire qualcosa alle famiglie italiane, e lo fanno tramite ?Vita?. Ecco che cosa ci ha scritto la responsabile di Cjd Voice, Carmie, pensando ai familiari dei malati italiani: «Amate i vostri cari malati, amateli come sempre. Sanno che devono morire, lo sentono, e hanno paura. Non abbandonateli: se ne andranno in fretta. So che avete paura, so che gli altri non vi capiscono. Lo so perché ci sono passata. Ma io non mi vergogno di niente, se non del silenzio dei governi sull?epidemia, e aiuterò chiunque vorrà spezzare questa coltre». «Vorrei dire alle famiglie dei malati che vi sono vicina, e anche molto addolorata per la difficile esperienza che vi attende» scrive Patty Cook, un?altra componente dell?associazione. «Niente può preparare al decorso di una malattia come questa. Perciò dico: fatevi aiutare, non permettete che la malattia vi sovrasti. Non rimanete soli, non ce la fareste». Infine Brenda Perrott Williamson fa una raccomandazione: «Familiari dei malati italiani, annotate i sintomi dei vostri cari, scrivete quello che vedete nel loro comportamento. Sarà utile ai medici per capire di più la malattia. Il problema è che non hanno sufficienti informazioni sulla Cjd. I medici di famiglia, poi, non ne sanno niente. Avete una grossa responsabilità, non perdetevi d?animo».


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