Welfare

Da qui al 2020: l’imprenditorialità in Europa

di Flaviano Zandonai

Il tempo per discuterne i contenuti è scaduto e il documento è ufficiale. Ma comunque la nuova Comunicazione della Commissione Europea “Piano d’azione imprenditorialità 2020” merita ancora un confronto, anche all’interno dell’imprenditoria sociale. Non solo perché viene citata esplicitamente – la sola forma “speciale”, oltre alle immancabili startup digitali – ma anche perché sul “fare impresa” in generale si concentra un’attenzione crescente da parte dei policy makers e della finanza, sia istituzionale che quella emergente e diffusa dei business angels e del crowdfunding.

Tutti imprenditori quindi? In qualche passaggio la Comunicazione più che a un documento ufficiale assomiglia a un appello, una specie di manifesto per rilanciare lo spirito imprenditoriale che nel vecchio continente è in declino come mostrano questi interessanti dati di un eurobarometro dedicato e come confermano, in modo ancora più evidente, le comparazioni con altre aree geopolitiche (Asia su tutte). Per rilanciare la Commissione agisce su tre leve. La prima, a mio avviso la più interessante, è la formazione, o meglio le diverse forme di apprendimento delle competenze e soprattutto delle attitudini imprenditoriali: propensione al rischio, capacità innovativa e, perché no?, attenzione alla comunità di appartenenza. Tutti aspetti che tagliano trasversalmente settori di attività, forme giuridiche e pure mission d’impresa. Il documento della Commissione è molto ricco su questo punto e davvero servirebbe un confronto ad ampio raggio, utile ad esempio per riformulare proposte formative che sono molto (forse troppo) concentrate su tecniche manageriali e poco sullo spirito imprenditoriale, anche in ambito sociale. Lo stesso dicasi per le strutture di incubazione che ormai nascono come funghi però più intorno a un settore di attività che a un modello d’impresa, o meglio a un’idea di imprenditorialità. La parte successiva della Comunicazione, piuttosto standard, è dedicata alle forme di finanziamento e ai servizi allo sviluppo. Infine, una lista di indicazioni per il coinvolgimento di “gruppi specifici”.

Donne, anziani, migranti, disoccupati, giovani: sono questi i gruppi a cui fa riferimento una Comunicazione che, vale la pena di ricordarlo, non riguarda le politiche sociali o quelle del lavoro, ma l’imprenditorialità. Emerge così una rappresentazione border line del fenomeno, distante da quella in voga: dal capitano d’industria, all’innovatore digitale, financo all’imprenditore socialmente radicato in un territorio. Un pò come ai margini rischiano di essere molte delle persone che fanno parte dei target citati. Aspetti rilevanti soprattutto per chi, come la Commissione Europea, propone politiche e investe risorse. Ma altrettanto rilevanti per tutti quei soggetti, a volte anche non profit, che si propongono di sostenere la creazione d’impresa in questi ambiti. Qualche tempo ho fatto una figuraccia chiedendo a un esperto di imprese digitali se agli startupper interessasse disporre di una qualche rete di protezione sociale. “Assolutamente no” mi ha risposto. A dire il vero non ne sono convinto. Ma in ogni caso, su quest’altro fronte della creazione d’impresa la questione è certamente cruciale. Altrimenti al 2020 ci arriveranno in pochi.


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