Mondo

Da New-York: The days after

Viaggio del nostro corrispondente per le vie della grande Mela, nei giorni successivi alla commemorazione dell'11 settembre

di Ettore Colombo

NEW-YORK – “Uscite, americani, in queste sere, non restate in casa!”. L’attore Billy Cristal – quello di “Harry ti presento Sally”, film che nelle tv via cavo degli Usa proiettano tre volte al giorno e che è diventato un cult movie molto newyorkese proprio come Katt’s Deli, il bar dove si mangiano “i migliori sandwiches della città” compreso (era quello dove Meg Ryan simulava l’orgasmo) –continuava a dirlo in continuazione in diretta tv, l’altra sera, davanti a migliaia di americani, Bill Clinton compreso, pompieri e poliziotti di New York in prima fila, nel tempio dello sport, il Madison Square Garden. E di certo i cittadini della città più blindata d’America da un anno a questa parte non se lo sono fatti dire due volte: ce l’hanno nel sangue, i newyorchesi, il concetto di “andare fuori” la sera. Dove? Ovunque, ce n’è per tutti i gusti. I migliori locali in circolazione della nazione, e forse del mondo. Suonano hip hop, rap, house music. Ma anche rock and rolly, blues, jazz, country. Insomma, questa “è la città delle occasioni”, basta mettersi in paziente coda all’ingresso. Ed aspettare. La coda, qui, è un pezzo di città, come la skyline dei grattacieli, il Central Park all’ora dello jogging e gli hot dogs. Dall’11 settembre a questa parte, però, la fila si fa anche per attraversare la strada e cambiare isolato nel cuore di Manhattan, entrando o uscendo da casa o dall’ufficio, perché l’NPDY, il FDNY e l’FBI hanno bloccato e diviso il centro della città (Midtown eDowtown) in tante “zone” che sembrano scatole cinesi e che rendono difficoltoso, se non impossibile, attraversare New York a passo di marcia, “spediti come newyorkesi”. L’area tra la 42 street e la II avenue, ad esempio, è un incubo: lì si trova il Palazzo di Vetro (che non è affatto blu), chiuso al pubblico e di fatto chiuso anche a chi vuole farsi una passeggiata nei paraggi: è in corso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Bush in prima fila e se non hai il pass dell’Onu o non dimostri che abiti lì vicino non entri. Poliziotti quasi sempe gentilissimi si dimostrano irremovibili: o qualcuno scende dal palazzo (meglio sarebbe dire dal grattacielo…) a garantire per te o di entrare lì neanche se ne parla. Una città blindata, dunque, ma anche una nazione blindata, paralizzata, ferma come incantata davanti alla dolorosa e commovente fotografia che si è scattata un anno fa. L’11 settembre e i giorni seguenti qui tutti portano, attaccata al bavero della giacca, come fermaglio per i capelli, come orecchini o braccialetto, una bandiera a stelle e strisce: nessuno vuole dimenticare nessuno dei duemilaottocentouno morti delle Torri Gemelle. Tanto che la stessa commemorazione dell’attentato, al di là delle parate del mattino presto e dei concerti alla sera, si è risolta nei fatti in una a tratti emozionante e a tratti noiosa, ma comunque di scarso appeal tv ripetizione ad alta voce dell’elenco dei morti delle Twin Towers, le torri nere ed altissime al cui posto oggi c’è solo un enorme, desolante buco e intorno un angosciante vento. Rievocazione lunghissima e stentorea, morto per morto. Ricordato da tutti i network del mondo e dai suoi familiari ed amici con una serie infinita e lugubre di fotografie, medagliette e gadgets appesi al collo e portati come trofei. Ma lo show deve continuare e dunque sono ripesi quest’anno, in pompa magna, i campionati di baseball, football e basket, anche se ognuna delle varie league ha voluto ricordare – negli spot tv – che nemmeno i campioni plurimiliardiari degli sport professionistici Usa avrebbero dimenticato. Dagli inni, dalle facce e dalle lacrime pre-partita si direbbe proprio che non l’abbiano ancora fatto. Tanto meno dimenticano i newyorkesi, anche se si divertono, eccome se si divertono. E soprattutto affollano pubs e club dove si raccontano le loro vite e diventano amici in meno di tre minuti. Una scelta di vita, quella di essere cortesi, sorridenti e gentili con tutti, anche con i turisti stranieri, anche se non richiesti: la cosa più semplice che ti possa capitare, a New York, non è di essere borseggiato ma che qualcuno ti fermi per strada mentre armeggi con una cartina e ti chieda – lui – “Dove vuoi andare?”, “Ti sei perso?”, “Hai bisogno di aiuto?”. A sfatare tutti i miti europei su NY, questa è persino una città dove si prega in continuazione: nelle chiese finto-gotico dei cattolici – e in pompa magna, naturalmente – nelle chiese eleganti e compassate dei metodisti e dei presbiteriani, nelle chiese scollacciate, allegre e multicolori battiste e metodiste, dove ti dicono – alla fine della funzione con annesso esuberante e meraviglioso gospel – “torna a trovarci, la prossima volta”. Già, torna a New York, men, la prossima volta e non finirai di stupirti e di scoprire pezzi nuovi di città. Basta aprire glio occhi, sorridere alla gente per strada e non stancarsi mai di girare, anche senza sapere l’inglese. Bastano quattro parole di spagnolo e il gioco è fatto. Un po’ sospettosi di tanta melassa, abbiamo dovuto aspettare d’incontrare un tassista pachistano per sentir parlare male di Bush, della politica estera degli Usa e, naturalmente, d’Israele, tra un imprecazione e l’altra per il traffico, s’intende. “Colpa di Bush”, una specie di “piove, governo ladro”, ma molto più raffinato nelle analisi di geopolitica. Una cosa è certa però: se a New York non sei molto ricco o soltanto poco benestante, se devi vendere un intero cd ad un solo hot dog (prezzo un dollaro) per poter mangiare, come ci è successo di vedere ad Harem, hai molte meno bandiere fuori dalla porta di casa, dell’ufficio o del grattacielo dove vivi e non sei del tutto sicuro che tutto quello che fa l’America – giusto o sbagliato che sia – è il tuo Paese a farla. Né basta una bellissima e commovente pubblicità dell’11 settembre e dintorni fatta di tante facce, accenti e colori della pelle diversi che, davanti alla telecamera, pronunciano con orgoglio la frase “I’m american”, per farti pensare il contrario. Basta farsi un giro, downtown o uptown, per rendersene conto.


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