Cultura

Da miniere a musei Nei pozzi la vita continua

Le nostre San José: cosa resta degli oltre tremila siti italiani

di Silvano Rubino

L’attività estrattiva è terminata quasi ovunque. Ma in molti luoghi le testimonianze di un passato economico e sociale importante sono diventate nuovi motori di sviluppo locale. E hanno saputo creare un’innovativa forma di turismo culturale
Incollati al video e ai siti internet per seguire le sorti dei 33 minatori intrappolati nella viscere della terra del Cile. L’Italia ha seguito la vicenda di San José con una grande partecipazione emotiva. Quasi riconoscendo in quei volti, in quelle storie anche un po’ di se stessa. Un pezzo della sua identità. L’identità di un Paese che è stato anche un Paese di minatori e di miniere. Dal 1870 ad oggi sul nostro suolo sono stati aperti (e nella stragrande maggioranza richiusi) quasi tremila siti. Generazioni di italiani hanno passato molto del loro tempo in strette e buie gallerie, come quelle dove si muovevano, prima dell’incidente, i “colleghi” cileni.
«È stato uno dei principali fattori di sviluppo economico dell’Italia fino agli anni 70», spiega Roberto Grossi, presidente di Federculture, «che ha subìto un lento ma inesorabile declino, che ha portato alla chiusura e all’abbandono di quasi tutte le miniere». Con il rischio che con la rovina fisica degli edifici e delle gallerie andasse perduto anche il patrimonio di storie, legami comunitari, cultura del lavoro che si erano costruiti insieme ai giacimenti. Un oblìo identitario contro il quale qualcuno ha provato a opporsi: «La spinta di operatori, studiosi e amministratori pubblici ha reso possibile la trasformazione di molti di questi siti in parchi minerari», spiega ancora Grossi. «Si tratta di luoghi in cui gli elementi naturali e quelli prodotti dalla mano dell’uomo si sono mescolati e hanno dato vita ad un ambiente unico e particolarmente suggestivo, portando a nuova vita secoli di storia».
Un fiorire di iniziative spontanee, scarsamente coordinate e quindi difficile da censire, nato su spinta spesso degli enti locali (Regioni in primis), ma con il contributo fondamentale del mondo non profit (con le associazioni degli ex minatori, per esempio, vedi box) e di quello dei privati (come nel caso di Scopriminiera, vedi box). Oggi, dopo che nel 2004 i siti minerari sono stati inseriti tra tra i beni culturali da tutelare nel Codice del paesaggio, in Italia è possibile muoversi sulle tracce dei minatori lungo quasi tutto lo Stivale, in un ideale itinerario della memoria. A cominciare dal parco minerario della Sardegna, il primo al mondo riconosciuto dall’Unesco, passando per quelli dell’Isola d’Elba e dell’Amiata Colline Metallifere Grossetane in Toscana, per quella di Gambatesa in provincia di Genova, per quelli in quota in Alto Adige o in Valle d’Aosta e concludendo con le zolfatare di pirandelliana memoria in Sicilia.
Con una sorprendente risposta positiva del pubblico: entrare nel buio delle gallerie, magari guidati da un ex minatore, è un’esperienza affascinante, che fa toccare con mano la durezza del lavoro, ma anche la forza dei legami si creavano dentro e fuori i pozzi. Da giacimenti di minerale, molti di questi luoghi hanno saputo trasformarsi in giacimenti di memoria, ma anche in motori di sviluppo (sostenibile) locale. In zone che spesso hanno vissuto traumatici processi di deindustrializzazione, i musei minerari portano posti di lavoro. E la capacità di coinvolgere intere comunità in un progetto comune.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA