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Da Kiev a Varese: «Sono sempre un medico»

In primavera, con il Decreto Ucraina, l’Italia ha aperto le porte a medici e operatori sanitari fuggiti dalla guerra, permettendo loro di esercitare la professione. Quanti però sono riusciti a farlo? Pochissimi, perché la burocrazia ha bloccato le buone intenzioni. Oksana Tsyganchuk, medico epidemiologo, è una di loro: viene da Kiev ed è stata assunta dalla RSA della Fondazione Molina

di Fadia El Hazaymeh

Oksana Tsyganchuk, medico epidemiologo, fino allo scorso febbraio a Kiev aveva una bella carriera e una bella famiglia. La guerra all’improvviso ha cambiato tutto: la dottoressa si rifugia in Italia, dove la madre già viveva e cerca piano piano di ricostruirsi una vita, pezzo dopo pezzo. Un’impresa per nulla facile, soprattutto in un paese in cui la lingua e la burocrazia diventano ostacoli insormontabili. Lei dedica tutto il suo tempo allo studio dell’italiano e si attiva per cercare un lavoro e poter ricominciare: «Senza i miei genitori non ce l’avrei mai fatta, ho dovuto stravolgere la mia vita e non era nei piani. Ho dovuto lasciare la mia città in cui vivevo bene, lavoravo da diciassette anni come epidemiologa, avevo una bella carriera e una bella famiglia. Mi è servito del tempo per capire cosa fosse successo davvero e cosa fare per poter andare avanti a vivere», dice la dottoressa. Fortunatamente, la sua strada si incrocia con quella di Fondazione Molina, un riferimento nel territorio di Varese per i servizi assistenziali e sociosanitari alla persona. La Fondazione fin dai primi giorni della guerra si è attivata per aiutare i profughi ucraini: raccoglie beni di prima necessità attraverso il progetto “Scatola Vita” e – pensando subito al lavoro – crea un portale digitale, in lingua ucraina, consultabile a livello internazionale, in cui è possibile pubblicare il proprio curricula. Una vera e propria banca dati, dalla quale anche le varie associazioni, informate dell’esistenza di questo sito, possono attingere per dare la possibilità ai profughi di lavorare.

Il 24 ottobre, Oksana viene assunta presso la RSA di Fondazione Molina e un barlume di speranza si riaccende nella sua vita. Nella drammaticità della situazione, la dottoressa trova il coraggio di ricominciare, per lei e per la sua famiglia, perché quando parte non abbandona solo la sicurezza di una quotidianità tranquilla ma anche una giovane figlia, Valeria, studentessa universitaria in Repubblica Ceca e un marito, che lavora tuttora a Kiev. «Prima di tutto, ho dovuto legalizzare la mia situazione e mi sono mossa per avere tutti i documenti necessari. Ho scoperto cosa significa “burocrazia” in Italia, ci sono voluti circa quattro mesi per avere tutte le carte in regola e nel frattempo ho dovuto affrontare un’altra enorme difficoltà: imparare la lingua», racconta la dottoressa, in italiano. «Ho capito subito che senza conoscere l’italiano non avrei potuto fare niente, così ho trovato una brava insegnante. Studio tutti i giorni, perché è un passo fondamentale per potermi integrare al meglio e per parlare liberamente con i miei colleghi, che mi stanno aiutando moltissimo».

Grazie a Fondazione Molina la mia vita è cambiata e non è più buia come prima. Ho potuto continuare la mia carriera come medico e ricominciare. Niente è semplice nella vita, ma credo che tutto sia possibile

Oksana Tsyganchuk, medico epidemiologo,

Superati questi due grandi step (il riconoscimento dei documenti e le lezioni di italiano), Tsyganchuk inizia a cercare un lavoro. Specializzata in epidemiologia, con un ottimo curriculum, scopre su internet il sito di Fondazione Molina e invia una richiesta per poter lavorare. Insieme a Maryna Zhyronkina, assistente di direzione presso la Fondazione, a sua volta di origini ucraine, fa le traduzioni necessarie. «Grazie a Fondazione Molina la mia vita è cambiata e non è più buia come prima. Ho potuto continuare la mia carriera come medico e ricominciare. Niente è semplice nella vita, ma credo che tutto sia possibile». Nonostante la tragicità della situazione nel suo paese di origine, porta con sé un messaggio di grande positività e fiducia nel futuro: «Voglio rimettermi in gioco, dovrò studiare ancora tanto e continuare a lavorare duramente, il mio processo di integrazione è appena iniziato ma i miei colleghi sono gentili e mi aiutano molto», dice. «In Italia, per quanto riguarda il mio lavoro, c’è la possibilità di utilizzare molti programmi tecnologici e avanzati, posso imparare tanto; ci sono molte regole, è vero, ed è giusto impararle per vivere in un nuovo paese. Una volta comprese a fondo permettono di avere tante possibilità. Secondo me, se una persona vuole integrarsi non deve aspettarsi che sia semplice ma sicuramente è possibile».

Il Decreto “Misure urgenti per contrastare gli effetti economici e umanitari della crisi ucraina” convertito in Legge il 20 maggio 2022 n .51, prevede che medici, infermieri e operatori sanitari fuggiti dalla guerra in Ucraina possano temporaneamente esercitare la loro professione in Italia, senza tutto l’iter di riconoscimento dei titoli previsto ordinariamente. Fuggiti dalla drammaticità della guerra, i rifugiati arrivano in Italia senza niente: non hanno una casa, non hanno un lavoro, se sono fortunati trovano temporaneamente accoglienza presso dei parenti che nella maggior parte dei casi fanno lavori poco qualificati e non possono garantire ospitalità a lungo termine. «Le associazioni di volontariato sono state molto collaborative in questo senso, sono state accolte molte persone, c’è stata grande solidarietà da questo punto di vista», afferma il presidente della Fondazione, Carlo Maria Castelletti.

Una casa però non basta per poter ricominciare a vivere e Fondazione Molina ha pensato da subito a dare una soluzione al problema del lavoro, attraverso il portale dei curricula. «In pochi giorni abbiamo avuto trentasei curricula di diverse tipologie, noi come Fondazione Molina abbiamo assunto tre infermieri e due medici, ma regolarizzare l’assunzione è stato molto difficile», continua il presidente Castelletti. La burocrazia, in Italia, è un grande ostacolo alla solidarietà, aggiunge Maryna Zhyronkina, assistente di direzione alla Fondazione, in Italia da undici anni: «Non è stato semplice: la legge molto spesso dice una cosa che apparentemente, nella teoria, sembra facile, però nella pratica non lo è. Le amministrazioni hanno dei tempi biblici e la legge, essendo molto interpretabile, spesso non è chiara». Con la suddetta Legge è andata proprio così. Lì è previsto che i rifugiati in Italia possano lavorare solo se in possesso del passaporto europeo per le qualifiche dei rifugiati, un documento rilasciato dal Consiglio europeo di Bruxelles, difficile da ottenere perché richiede una procedura molto lunga e impegnativa. Fondazione Molina decide di appellarsi ad una consulenza legale per verificare l’attendibilità di questa legge: il parere giuridico mette in luce che se i profughi sono in possesso dei certificati originali del titolo di studio, non è necessario avere il passaporto europeo. Ma nella pratica, come sottolinea più volte la dottoressa Zhyronkina, purtroppo le istituzioni tendono a non collaborare e a non approfondire la questione.

In pochi giorni abbiamo avuto trentasei curricula di diverse tipologie, noi come Fondazione Molina abbiamo assunto tre infermieri e due medici, ma regolarizzare l’assunzione è stato molto difficile

Carlo Maria Castelletti, presidente di Fondazione Molina

Spinta dalla solidarietà per i suoi connazionali e da un profondo senso di giustizia, Zhyronkina non si ferma di fronte all’inerzia delle istituzioni pubbliche, che sembrano non volersi aggiungere lavoro extra e assumersi nuove responsabilità, ma cerca in tutti i modi di trovare una soluzione. «Come struttura privata, vedendo che c’era una strada percorribile per dare un aiuto concreto a queste persone, ci siamo occupati della traduzione dei documenti presso il Tribunale e abbiamo assunto medici e infermiere. Purtroppo, per mancanza di informazione, eccessiva interpretabilità della legge e scarsa volontà da parte delle istituzioni di impegnarsi nel comprenderla a fondo, moltissime persone rifugiate non riescono ad integrarsi nel mondo lavorativo, pur essendo una risorsa enorme perché la maggior parte di loro svolgono professioni molto qualificate, di cui noi in Italia abbiamo bisogno. Collaborare con queste persone non deve essere un peso, anzi, è una gratitudine reciproca perché noi abbiamo bisogno di loro e loro di noi».

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