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D-day

Un giorno che è ogni giorno, ma anche il giorno dei giorni insegna che la libertà sta un gradino sopra qualunque verità.

di Alter Ego

Lo chiamarono D-Day per non farsi riconoscere. D come Day, D-Day come Day Day. Il giorno, per antonomasia. O, se vogliamo, il giorno dei giorni. Il giorno della liberazione, ovvero della libertà. Ma non dal nazismo e, non solo o semplicemente da Hitler. In fondo, infatti, non era neppure tutta colpa sua. Il nazismo, come è stato scritto, non era solo la banalità del male all?ennesima potenza, ma la riemersione improvvisa di una radice odinica, una reazione violenta alla paura della tecnocrazia liberaloide prossima ventura. E Hitler che scongiurò fin dall?inizio il D-Day, sognandolo ogni notte, era invaso da un male sovraumano. Il D-Day è la resurrezione della libertà morta nel 1933, il più grande orrore del ?900, quando la demonicità aggredisce il mondo attraverso Hitler. Il D-Day è quindi un simbolo che ricorda come commetta un imperdonabile errore chi riduca l?agire di Hitler e la parabola del nazismo a soli motivi umani. Il D-Day, 60 anni dopo, fa segno che il giovane imbianchino austriaco dalla retorica non comune fu solo il medium di un male superiore all?umano, che in lui attirò a sé il peggio del senso comune tedesco e dell?Occidente anglofono. Il D-Day è così la fine dell?Antistoria che avrebbe sfondato nel mondo con Hitler. E la seconda guerra mondiale in ogni senso è la metafora che si rivolta ai burattinai umani, posseduta da un male sovraumano, insostenibile. Al di là della retorica, quindi, il D-Day ci rammenta che la libertà è più importante della verità, di qualunque verità. Come della pubblica opinione e di chi calcola la vita.


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