Non profit

Custodi di semi, custodi di comunità

di Diego Galli

Dietro la parola “grano” si nasconde la perdita di biodiversità della nostra agricoltura. In nessun posto come la Sicilia questo processo appare più chiaro. Perciasacchi, Russello, Tumminia, Maiorca, Nero delle Madonie, Timilìa, sono solo alcuni degli oltre 50 grani antichi sopravvissuti. Fino a qualche decennio fa ne esistevano almeno un centinaio. Se la metà è sopravvissuta si deve solo alla passione ostinata di alcuni agricoltori che si tramandano semi e saperi da generazioni lottando contro leggi e burocrazia. Ogni territorio, ogni altitudine, ogni terreno ha il suo grano, quello più adatto alle condizioni locali. L’agricoltura industriale lavora invece per sviluppare poche varietà di grano guidata solo dal profitto commerciale. E oggi le normative impediscono la commercializzazione dei semi antichi.

Quello che oggi chiamiamo grano è il prodotto di ibridazioni e manipolazioni genetiche che hanno creato poche varietà “nanizzate” che rispondono meglio ai fertilizzanti chimici. I grani moderni risultano inoltre particolarmente adatti alla lavorazione industriale. L’indice alveografico W è un termine che nessuno assocerebbe al pane, ma che nell’industria alimentare indica la capacità della farina di rigonfiarsi e trattenere acqua. Siamo passati dai 40-80 W delle varietà antiche di grano, agli attuali 350 W. Come osserva Gabriele Bindi nel suo libro “Grani antichi”, si tratta di “un pane più gonfio d’aria e d’acqua sarà sicuramente meno nutriente, ma abbastanza pesante e voluminoso”. Più prodotto con meno materia prima.

Le varietà moderne di grano sembrano essere all’origine dell’incremento della celiachia e della sensibilità al glutine. Si stima che i sensibili al glutine siano il 6% della popolazione, in Italia circa 3 milioni di persone e almeno 20 milioni di americani. I celiaci si fermano invece all’1%, ma in costante aumento. Uno studio realizzato dall’italiano Alessio Fasano, fondatore del Center for Celiac Research and Treatment presso la Maryland School of Medicine di Baltimora su 3.500 americani adulti di cui erano stati conservati campioni di sangue raccolti nel 1974, è emerso che si è passati da un caso su 501 individui del 1974 a un caso su 219 nel 1989, fino a uno su 133 nel 2003. Come afferma Fasano in un’intervista al Corriere della sera, «queste reazioni anomale dipendono da prodotti dove la percentuale di glutine è stata aumentata artificialmente. Il nostro organismo non si è evoluto abbastanza per riuscire a gestire queste sostanze». I danni non si fermerebbero allo sviluppo della celiachia o della sensibilità al glutine. Anche disturbi neurologici e psichiatrici come l’ADHD, la cefalea cronica, la schizofrenia, l’autismo sono stati ricondotti al glutine. Il meccanismo lo spiega di nuovo il professor Fasano.

In grani antichi contengono glutine, a volte anche più di quelli moderni. Tuttavia diversi studi dimostrano che il glutine contenuto nelle farine ottenute da varietà di frumenti antichi contiene meno “epitopi tossici”, le sequenze aminoacidiche riconosciute dai linfociti delle persone affette da celiachia. Paolo Caruso del Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente dell'Università di Catania ha iniziato una review sulla letteratura scientifica, da cui emerge come le farine di “frumenti antichi” posseggono un minor contenuto di citochine proinfiammatorie (Valerii et al., 2014) e una minore forza del glutine (Gallo et al., 2010). Ma secondo il Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), organismo responsabile della certificazione delle sementi, nel 2015 su 290.000 ettari seminati a grano duro le superfici coltivate a grani antichi oscillano dai 3 ai 5 mila ettari.

Il paradosso è che ad oggi è di fatto illegale commercializzare la maggior parte dei grani antichi siciliani. Secondo le linee guida della legge regionale siciliana, un “coltivatore custode” può scambiare soltanto a titolo gratuito una “modica quantità” di semi, come se si trattasse di droga. La modica quantità è pari “al fabbisogno di un’azienda agricola su scala familiare”. Può vendere i semi solo per la macina, non come sementi. Secondo il decreto Legislativo 29 ottobre 2009, n. 149, solo allorché un contadino custode iscrive a registro una varietà protetta può commercializzarne i semi, ma senza “superare lo 0,5 per cento della quantità di sementi, della stessa specie, utilizzata in ambito nazionale per una stagione di semina. Tale quantità è rapportata a quella necessaria per seminare 100 ha qualora quest'ultima risultasse maggiore”. Non più di 100 ettari quindi. In questo modo sono necessari anni per creare delle coltivazioni in grado di produrre una quantità di semi adeguata alla commercializzazione.

E’ chiaro che intorno alle certificazioni si muovono grossi interessi commerciali. La Barilla ha preso posizione contro un decreto del Governo Renzi che introduce l’obbligo di indicare sull’etichetta della pasta l’origine del grano utilizzato. Per la Barilla questo “confonderebbe i consumatori e indebolirebbe la competitività della filiera della pasta”. Nel paese della pasta e della pizza, infatti, importiamo tra il 50% del grano duro e il 75% del grano tenero dall’estero. Il grano tenero per il pane viene pagato 16 centesimi al chilo. Un agricoltore deve venderne 15 chili per poter acquistare una pagnotta di pane, magari prodotta con il suo stesso grano.

L’iscrizione delle varietà da conservazione al Registro avviene per iniziativa del Ministero, delle Regioni o su richiesta di enti pubblici. La Commissione per la valorizzazione delle sementi autoctone e dei grani antichi, che dovrebbe rilasciare le autorizzazioni per la commercializzazione delle varietà protette in Sicilia, è stata appena nominata. Attualmente soltanto Giuseppe Li Rosi, agricoltore pioniere della riscoperta dei grani antichi, è stato ufficialmente autorizzato dalla Regione a commercializzare 3 grani, la maiorca, il percia sacchi e la timillia.

Invece di sfruttare questo monopolio non voluto, è stato proprio Li Rosi il principale fondatore di Simenza, cumpagnia siciliana sementi contadine, che raduna 118 realtà agricole dedite alla coltivazione, lavorazione e valorizzazione dei grani antichi. Lo scorso 10 e 11 novembre si sono svolte nella splendida cornice di Novara di Sicilia le “Jurnate di Simenza”. Sono stato chiamato a parlare di come la tradizione del “community organizing” possa venire incontro a una giovane organizzazione come Simenza, un’associazione particolarmente interessante perché coniuga piccoli produttori legati al territorio, filiera del cibo, tutela della salute e della biodiversità.

Associazioni ibride di questo tipo necessitano di una strategia organizzativa “non riduzionista”, ma al tempo stesso efficace. Ecco i 5 aspetti su cui il community organizing potrebbe venire incontro a queste necessità.

POTERE. Non basta avere buone ragioni. Bisogna ottenere risultati. E cambiare le cose. Il potere è divenuta una specie di parolaccia nel sentire comune. Tuttavia il suo significato etimologico è “possibilità di agire”. Nelle nostre società il potere assume caratteristiche diverse nei tre diversi ambiti in cui è articolata: lo Stato, il mercato e la società civile. Se nella prima sfera il potere assume la forma della coercizione, delle tasse e della burocrazia, nel mercato il potere è quello del denaro. Il potere delle società civile ha una natura diversa. E’ il potere relazionale, dato dalla forza dei numeri e dalla capacità dei cittadini di creare connessioni tra loro.

RELAZIONI. Alle Jurnate di Simenza hanno partecipato persone straordinarie. Agricoltori visionari, capaci di coniugare l’amore per la loro terra e le tradizioni con un pensiero orientato al futuro, alla sostenibilità e al pensiero complesso. Ci sono stati momenti musicali, la testimonianza di Chiara Montanari, Capo Missione in Antartide, imprenditori in grado di valorizzare i territori. Si è parlato di storia, filiera produttiva, frattali. Ma sono state continuamente evocate persone che non c’erano. I soci di Simenza che ci si aspettava di vedere e non sono venuti. I contadini non associati che rischiano di essere intimoriti da burocrazia e legislazione sfavorevoli. I consumatori con cui stabilire alleanze all’insegna della qualità e della trasparenza dei prodotti. Come si fa a coinvolgere chi non lo è già? I community organizer hanno inventato uno strumento per farlo. L’incontro relazionale, faccia a faccia, uno a uno. Fatto per comprendere motivazioni e interessi di ogni singolo. E di raccontare la propria storia, per trovare quel terreno comune e quella fiducia reciproca indispensabile all’azione collettiva.

AZIONE. Le grandi idee rischiano di immobilizzare. La divergenza tra il “mondo come dovrebbe essere” e il “mondo come è” rischia di apparire paralizzante. Per questo occorre saper tradurre le idee in azioni. Per Saul Alinsky, il fondatore di questo approccio, “l’azione è l’ossigeno dell’organizzazione”. Consente di creare organizzazioni non burocratiche. Il rischio è sempre quello di risolvere il senso di impotenza istituendo una commissione o un organo associativo. Invece la strada da percorrere è quella di immaginare azioni. Che generino “reazioni”. Sulla base delle quali apprendere. Un’opera anche pedagogica in grado di far apprendere alle persone le arti dell’azione collaborativa. Condurle passo passo verso l’agire nell’arena pubblica. Qualcosa che stiamo rapidamente disimparando a fare.

LEADER. Un’organizzazione per non essere “riduzionista”, per salvaguardare la propria “biodiversità” interna, deve essere un’organizzazione con tanti leader. Ma per non andare incontro alla dispersione o la paralisi, questi leader devono saper essere connessi tra loro. Quello del community organizing è un concetto di leadership diverso. Un leader è “qualcuno che ha un seguito”. E la sua capacità di leadership è legata al saper trovare e sviluppare altri leader. Solo in questo modo un’organizzazione relazionale diviene in grado di mobilitare in modo convergente un numero adeguato di persone per essere riconosciuta, agire, ed avere potere.

CUSTODI DELLA COMUNITA’. Le comunità non si creano da sole. Occorrono risorse dedicate, e anche un sapere. La maggior parte delle organizzazioni esistenti considera la comunità come qualcosa di dato, oppure un prodotto spontaneo della sua esistenza. Ma non è così. Una comunità ha necessità di essere nutrita, di figure dedicate, e di un approccio inclusivo e allo stesso tempo responsabilizzante. Ha bisogno di community organizer. O meglio, di custodi di comunità.

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