Salute

Cure palliative, solo per un italiano su quattro

Il 15 marzo è l'anniversario della legge che ha inserito i trattamenti delle patologie inguaribili nei livelli essenziali di assistenza - lea ma, come spiega il segretario della Fondazione Faro di Torino, c'è ancora molto da fare. In pediatria, per esempio, accede solo il 5% dei bambini che ne avrebbe bisogno

di Nicla Panciera

«Jimmy Carter ora riceve soltanto cure palliative, stop agli interventi medici»: titolo che in questi giorni abbiamo letto in molte testate. Queste parole veicolano il solito messaggio errato, ma tanto duro a morire, che le cure palliative siano sinonimo di accompagnamento alla morte. Le cure palliative sono una disciplina medica, sono un diritto e rispondono al bisogno dei malati di avere sollievo dalle sofferenze legate a malattie «caratterizzate da un'inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta», come recita la legge.

All'antivigilia dall’anniversario della legge 38 del 15 marzo 2010, che ha inserito le cure palliative nei livelli essenziali di assistenza Lea, ne abbiamo parlato con Simone Veronese, segretario nazionale della Società Italiana di cure palliative e medico palliativista della Fondazione Faro Ets che esattamente da quarant’anni si occupa di persone con malattie cronico-degenerative. Veronese, che ha studiato nel Regno Unito con David Oliver della University of Kent, un allievo della madre delle cure palliative, l’assistente sociale, infermiera e medico Cicely Saunder, ci spiega che la terapia del dolore è solo un aspetto di una specialità che guarda alla totalità della persona: «La sofferenza oggetto delle cure palliative ha molte dimensioni: quella fisica, legata ai sintomi; quella psicologica, come la paura di sentire male o di morire, l’ansia e la depressione; quella sociale, per l’isolamento e la perdita della propria indipendenza e dell’identità sociale; e quella spirituale, legata al tentativo di trovare un significato alla malattia e di sentirsi in pace con se stessi».

Dopo mesi di pandemia, che ci hanno costretto a capire che la morte non è sempre addomesticabile ai nostri tempi e modi, siamo nella situazione di prima. «Che è quella della negazione della morte» dice Veronese. Tanto che la recente Lancet Commission on the value of death parla della necessità di rivedere il rapporto della nostra società moderna con la morte, denuncia l’eccessiva medicalizzazione e la disumanizzazione della fase terminale della vita e lo scarso ricorso alle cure palliative. Non solo: «La Commissione», dice Veronese, «ha portato alla ridefinizione delle cure palliative, che devono occuparsi di tutta la sofferenza medicalmente correlata, quella associata alla malattia che abbiamo detto, aiutando anche chi magari non sta morendo o vive una condizione che magari non accorcerà la sua vita di un giorno. Questo sguardo globale allarga la nostra responsabilità».

La situazione italiana

In Italia, per carenze culturali, formative e di personale, l’offerta non corrisponde al bisogno di cure palliative, che si attesta sul 23%, quindi ne beneficiano solo 1 su 4 dei quasi 540 mila che ne avrebbero bisogno e la cifra scende al 5% in area pediatrica, mentre in paesi come il Regno Unito si arriva al 78%. Secondo l’Indice di qualità della morte, che guarda all’assistenza al malato terminale in 40 nazioni europee, l’Italia è al 24esimo posto. L’applicazione della legge lascia, quindi, molto a desiderare, per quanto in teoria si predichi la necessità di una sempre più precoce presa in carico del paziente. Comunque, molto è stato fatto in questi dodici anni: «Oltre all’inserimento nei Livelli essenziali di assistenza – Lea, c’è stata l’istituzione delle scuole di specializzazione in medicina palliativa per i medici e la messa a punto dell’aspetto organizzativo, con la creazione ed il processo di accreditamento delle Reti di Cure palliative, costituite da reti locali presenti sul territorio, che operativamente prevedono la collaborazione di pubblico e privato, coordinate dalle reti regionali di cure palliative» dice Veronese. «Quello che manca è il personale».

La Fondazione Faro è molto attiva nelle scuole e si occupa di formazione a ragazzi grandi e piccini. Nei principi stabiliti dalla Lancet Commission on the value of death, c’è anche quello di normalizzare la narrazione sulla morte e le morti. Forse proprio a causa dei tabù legati alla morte e altre ragioni culturali, permane un’enorme resistenza alle cure palliative. Eppure, «il nostro compito, non potendo dare giorni alla vita, è di dare vita ai giorni. Si chiama qualità della vita. Perché anche quando ti dicono che non c’è più nulla da fare, c’è invece molto da fare. È quanto di più lontano esista dal nichilismo di chi punta unicamente a toglierti un po’ di dolore e di ansia, in attesa dell’ineluttabile» dice Veronese, che ricorda le parole della Saunders: «Tu vali perché sei tu e sarai importante fino all’ultimo istante della tua vita. Faremo tutto il possibile non soltanto per aiutarti a morire serenamente, ma anche per aiutarti affinché tu ti senta vivo fino alla fine».

L'impatto sociale

Non da ultimo, c’è la società. Prendersi cura della persona malata che va verso la morte non è solo una questione medico-sanitaria ma sociale. Spesso confinato tra quattro mura, sofferente, anche perché privato della propria identità sociale, il malato è già socialmente morto eppure ha diritto a veder riconosciuta la propria dignità di individuo: «I volontari, che sulla carta sono parte di ogni team multidisciplinare di cure palliative, oltre certamente a supplire alle mancanze del servizio sanitario nazionale, trascorrendo il proprio tempo con il malato, ne riconoscono il valore e l’importanza come persona. In questo rimetterlo al centro sono tramite e portavoce della società intera». Un rendere tributo a una fase della vita, che ci aspetta tutti, che ricorda – dice Veronese – quanto accade nelle comunità islamiche dove la casa del paziente morente viene visitata da tutti gli abitanti del villaggio, perché chi è vicino alla fine è considerato più vicino alla divinità. Gli studi sul vissuto della morte delle varie popolazioni del mondo, condotti nell’ottica di aumentare l’efficacia delle cure palliative, hanno mostrato che in Africa, dove è naturale che la vita inizi e finisca, le persone sono in pace con loro stesse anche in fin di vita se si sentono nel posto giusto in famiglia, in società e nel mondo. «Proprio da qui viene uno degli strumenti di comunicazione usati oggi per facilitare l’identificazione dei bisogni delle persone in cure palliative, l’integrated palliative outcome scale – Ipos, ma anche uno strumento importante per identificare le priorità di cura delle persone chiamato Go wish game: il perseguimento dell’essere in pace con sé stessi è infatti cruciale per affrontare la sofferenza spirituale e anche tutte le altre di cui abbiamo parlato».

Il futuro delle cure palliative? Per Veronese è nell’inclusività, un po’ come sta avvenendo con le dementia friendly community, «nel coinvolgimento di tutti i membri della società, anche di quelli che presto ci lasceranno, idea alla base delle cosiddette compassion communities, città in cui nessun membro della società viene nascosto o lasciato indietro, già esistenti in varie aree del mondo, anche in Europa».

La foto in apertura è di Jon Tyson da Unsplash

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