Salute
Cure palliative: i primi 30 anni dell’hospice di Abbiategrasso
Dagli inizi, nell'ottobre 1994, a fianco delle persone con Aids ai primi servizi domiciliari negli anni Duemila, tre decenni di evoluzione delle cure palliative. Oggi la struttura oggi assiste 494 pazienti al domicilio e 280 ricoveri l'anno coprendo 38 Comuni lombardi. Al via le celebrazioni per il trentennale venerdì 11 ottobre
Proprio nell’ottobre 1994, l’hospice di Abbiategrasso apriva le porte al primo malato di Aids. Trent’anni di cure palliative sono un traguardo che verrà celebrato con un evento aperto nella sede di via Pontida 22, venerdì 11 ottobre e, il 25 ottobre, con un congresso dal titolo «Le relazioni che curano. Presente e futuro delle cure palliative» (qui).
«Nel 1994, in Italia c’erano solo due hospice e le cure palliative non erano diffuse e percepite come lo sono oggi. Quella realtà pionieristica fu inizialmente dedicata alle persone con Aids, un’emergenza che portava molti giovani alla morte. Fu un’esperienza dirompente che suscitò anche paura e diffidenza nella cittadinanza, tanti erano i pregiudizi e lo stigma verso l’Hiv» spiega Luca Moroni, direttore dell’Hospice e referente del coordinamento regionale Federazione cure palliative Fcp Lombardia. Proprio all’Hiv di quegli anni, nell’ambito delle celebrazioni per il trentennale, è stata dedicata una proiezione giovedì 3 ottobre alle 20.45 (qui). Dal 2000, la struttura inizia ad accogliere anche persone con altre patologie e nel 2005 prendono il via le cure palliative al domicilio. Il servizio, inizialmente accreditato sul territorio del Distretto Sanitario di Abbiategrasso, negli anni si è poi allargato comprendendo i distretti di Magenta e Vigevano per un totale di 38 comuni. Oggi è un punto di riferimento regionale e nazionale, «con un modo di operare che unisce sistema pubblico e terzo settore, ospedale e territorio, consentendo da un lato di registrare minori ricoveri negli ultimi giorni di vita, indice della capacità di individuare i bisogni e prendere in carico i pazienti, e dall’altro di favorire lo scambio di competenze» spiega Moroni: «Lavorando in ospedale, a stretto contatto con gli altri specialisti, i palliativisti acquisiscono conoscenze sulle patologie dei propri pazienti e gli specialisti familiarità con gli aspetti etici e comunicativi». Le parole pesano e gli effetti nefasti sono ben noti a chi ci è passato. Quel Non possiamo fare più niente per lei uccide prima del tempo, mentre Lei sarà ora seguito più da vicino anche da chi lei già conosce, il team di cure palliative non prosciuga del tutto la forza residua del paziente, già molto spaventato per il futuro.
Inoltre, entro il 2042 solo una famiglia su quattro sarà composta da una coppia con figli e se oggi il 23,8% della popolazione è over 65, nel 2050 potrebbero essere il 34,5% della popolazione. Manca personale medico sanitario competente e formato in cure palliative per soddisfare le richieste di una popolazione che invecchia, più precisamente metà dei medici e due terzi degli infermieri, come ha di recente denunciato con un documento la Società italiana cure palliative, mettendosi a disposizione. La necessità di identificare per tempo il bisogno e di una presa in carico precoce sono stabilite per legge. «Il rapporto tra la numerosità degli operatori e il carico assistenziale è pensato per favorire la comunicazione» spiega Moroni che ricorda l’inaccettabile gap tra i documenti programmatici nazionali e regionali e gli investimenti per la loro realizzazione: «Dal 2010 a oggi la tariffa giornaliera identificata da Regione Lombardia per sostenere i costi del ricovero in hospice è stata incrementata di 16 euro, cioè del 6,2%, a fronte di un’inflazione del 34%».
Inoltre, «solo il 23% dei pazienti presi in carico dalle cure palliative è non oncologico. La direzione verso cui dovremmo andare, come emerge dai paesi più avanzati sotto questo aspetto, come Regno Unito, Canada, Australia e Catalogna, è di arrivare a un 60% di pazienti non oncologici come i cardiovascolari e con malattie neurodegenerative» spiega Moroni. Il tempo di permanenza in Hospice è un importante indice della capacità di presa in carico del paziente, che significa anche «non adottare un approccio medico tipico dell’acuto nei pazienti in cui non ha alcun senso, senza guardare alla loro qualità della vita e alle loro priorità». Dopotutto, come spesso fanno notare gli stessi oncologi, è teoricamente più facile proseguire con le cure, proporre al paziente un’ulteriore opzione terapeutica, con il suo pesante carico di effetti collaterali, nonostante le evidenze di scarsa efficacia, piuttosto che ragionare sul da farsi per il bene della persona.
Non da ultimo, le cure palliative vanno garantite per legge anche nei reparti ospedalieri ma, denuncia Moroni, «ciò accade ancora troppo spesso in maniera saltuaria, quindi non garantita e strutturata». Una presa in carico precoce, inoltre, che sappia evitare inutili interventi invasivi negli ultimi mesi di vita, è un investimento economico per la tutela della tenuta del nostro sistema sanitario nazionale, dal momento che la presenza di cure palliative anche ospedaliere è un investimento che genera risparmi, non solo di sofferenza, ma anche economici. «Il trasferimento in hospice è la scelta più appropriata in molti casi, in particolare quando il paziente non ha una famiglia forte, ed è segno di una rete che funziona».
L’hospice è una cooperativa sociale, In Cammino, sostenuta principalmente dalla Fondazione Franco Moschino, dall’Associazione Amici dell’Hospice di Abbiategrasso, dall’Ats Milano e Ats Pavia. L’associazione Amici dell’hospice di Abbiategrasso è composta da 80 volontario che svolgono attività di raccolta fondi ed entrano in relazione con i malati in hospice e al domicilio. «Sono un valore aggiunto inestimabile, anche perché sappiamo in che misura le relazioni influiscano sulla qualità della vita delle persone» conclude Moroni. «Oggi Abbiategrasso ha saputo superare l’isolamento che troppo spesso accompagna la malattia ed esprime tanta attenzione e calore ai suoi malati».
«Le associazioni del terzo settore hanno storicamente avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo del movimento delle cure palliative in Italia promuovendo profondi cambiamenti di tipo culturale nei contesti e nelle istituzioni dei territori di proprio riferimento e rispondendo efficacemente ad una quota significativa dei bisogni dei malati inguaribili e delle loro famiglie» commenta Tania Piccione, presidentessa della Federazione cure palliative Fcp. «Oggi le realtà associative rappresentano quindi una risorsa essenziale e qualificante delle Reti di Cure Palliative e concorrono in maniera determinante al raggiungimento dei Livelli Essenziali di Assistenza e alla garanzia dell’esigibilità del diritto di accesso alle cure palliative per tutti i cittadini che ne hanno bisogno. Si profila di conseguenza l’esigenza che le specificità ed il patrimonio umano e professionale degli ETS, maturati in oltre un quarantennio di vicinanza alle problematiche di salute dei cittadini, vengano tutelati e valorizzati dalle istituzioni al fine di poter garantire i diritti fondamentali delle persone con bisogni di cure palliative e favorire il corretto e uniforme sviluppo su tutto il territorio nazionale delle reti di cure palliative per l’adulto e in ambito pediatrico».
Foto di Cristina Buldrini
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