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Curare l’altro non è questione di altruismo

Intervista a Elena Pulcini, filosofa sociale

di Sara De Carli

Ha scritto un libro destinato a far discutere. In cui sostiene che il concetto di cura che la tradizione ci ha consegnato è un valore svalutato. Perché ostaggio della dimensione privata. Per questo è un concetto che va ripensato. A partire dalla nostra fragilità…
La bomba arriva a pagina 259: «Svincolare la cura dalla dimensione privata è la prima operazione da compiere per restituirle il potere di incidere sulle sorti del mondo». Anche dopo tre mesi di viaggio dentro i cantieri sociali, per rintracciare e raccontare i germogli della comunità della cura, questa affermazione fa fare un balzo di sorpresa.
A scriverla nero su bianco è Elena Pulcini, docente di Filosofia sociale all’università di Firenze, che ha appena pubblicato La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’era globale (Bollati Boringhieri). Lo presenterà il 20 settembre al FestivalFilosofia di Modena, quest’anno tutto incentrato sul tema della comunità. Poi ne discuterà a Torino Spiritualità. Il suo libro è il tentativo, innovativo e coraggioso, di fondare una nuova etica per l’età globale, a partire appunto dalla cura.
Vita: Perché la cura?
Elena Pulcini: Rivalutare la cura non è certo una mia idea, c’è tutta una tradizione filosofica e femminista, con la differenza che io provo a fondare l’etica della cura non su un dovere né su una base moralistica, ma sull’idea di vulnerabilità: solo un soggetto che si percepisce come bisognoso di cura, nel senso di riconoscere una appartenenza e un legame, può in qualche modo farsi carico dell’altro. È la percezione della mia fragilità a spingermi a riconoscere anche l’altro come soggetto di cura.
Vita: Cos’è la cura?
Pulcini: Parto da una piccola provocazione: propongo di rileggere la cura in maniera non altruistica, non oblativa, non maternale. Il concetto di cura che la tradizione ci ha consegnato è quello di un valore svalutato o quantomeno emarginato nel privato e nel femminile, che è stato il primo depositario della cura, un materno che è di per sé altruistico e magari anche sacrificale. Bisogna infrangere il confine tra pubblico e privato, sottraendo la cura alla dimensione ristretta che da sempre l’associa a funzioni sussidiarie e pubblicamente irrilevanti.
Vita: Qual è allora il posto giusto per la cura? La sua proposta filosofica può impattare anche sui modelli di welfare?
Pulcini: È chiaro che noi possiamo provare a misurare l’idea della cura in tutti i vari settori della vita quotidiana, da quello politico al welfare a quello professionale, però sia chiaro che non si tratta di pensare la cura in questo o in quel punto della scena, si tratta di pensarla come un principio universale, come una modalità dell’esistere, non per nulla parlo di cura del mondo, e insieme come qualcosa di concreto e capillare, che precisa il concetto di responsabilità e gli toglie il rischio di astrattezza. La cura, per come la intendo io, non è né assistenzialismo né paternalismo, è – andando alla radice – un modo diverso di pensare il soggetto, che non è l’individuo sovrano e autosufficiente della modernità ma un soggetto relazionale, un individuo che si pensa in relazione fin dall’origine. Per questo dico che prendersi cura del mondo vuol dire prima di tutto ricomporre la divaricazione tra individualismo e comunitarismo.
Vita: Che sono, a suo dire, le due opposte patologie dell’età contemporanea?
Pulcini: Individualismo globale e comunitarismo locale, individualismo illimitato e comunitarismo endogamico, patologia dell’io e patologia del noi? chiamiamole come vogliamo, ma il problema è questo. Il legame sociale scompare e questo fa riemergere un fortissimo bisogno di comunità che però spesso si configura come una comunità tribale, che esclude l’altro e lo vive come nemico. Di fronte a questa forbice bisogna ritrovare una forma di relazione che contrasti le patologie dell’individualismo senza ricadere nei tribalismi del comunitarismo attuale, nella comunità come deriva identitaria.
Vita: Quindi qual è la sua nuova definizione di comunità?
Pulcini: Quella dell’essere-in-comune, dell’essere-insieme, del percepirsi vulnerabili e interconnessi, senza incorrere nel rischio di sacrificare individui e differenze. Essere insieme vuol dire riconoscere che la comunità immunitaria è una patologia e un’illusione, che il nostro essere-insieme ci espone giocoforza al contatto rischioso con la differenza, una cosa che può anche produrre disagio e conflitto, al punto che non possiamo non parlare di contaminazione e di contagio. Per questo l’etica globale non può che essere una solidarietà fra diversi e per questo la cura deve elevarsi ben al di sopra della sollecitudine per i prossimi e i vicini, per estendersi al mondo.


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