Welfare
Curare il Sud col non profit
Patrizio Bianchi, neo presidente di Sviluppo Italia, svela le strategie per creare nuove imprese e lavoro
C’era una volta l’intervento straordinario per il Mezzogiorno. Consisteva in leggi speciali di spesa che finanziavano enti costituiti appositamente allo scopo di promuoverne lo sviluppo e ridurre il divario socio-economico con il resto del Paese. Durò alcuni decenni. Si tradusse, tranne rare eccezioni, in un enorme sperpero di denaro pubblico e il divario, anziché diminuire, aumentò vertiginosamente. Si impose allora la necessità di una svolta, di rivedere radicalmente meccanismi e politiche di intervento e di affidarne la responsabilità dell’attuazione a persone di provata capacità. Così i primi lusinghieri risultati non tardarono ad arrivare, come nel caso delle migliaia di nuove imprese e posti di lavoro creati dalla “legge 44” sull’imprenditorialità giovanile.
Oggi si è aperta una sorta di “terza fase”. Da un lato, l’avvio dell’euro implica una maggiore concorrenza per le nostre aziende. Ma quelle meridionali, se non opportunamente sostenute, rischiano di risultare le più penalizzate. Dall’altro, la domanda di lavoro del Sud è tale da esigere ormai risposte veloci, efficaci, improrogabili.
Per questo è nata Sviluppo Italia, dagli inizi di luglio pienamente operativa, a presiedere la quale è stato chiamato un esperto come pochi di politica industriale, il Professor Patrizio Bianchi, preside della Facoltà di economia dell’Università di Ferrara, cui spetta l’arduo compito di individuare vie credibili e innovative allo sviluppo e all’occupazione. A lui “Vita” ha chiesto quale ruolo potranno svolgere le imprese sociali, e più in generale il non profit, in questa sfida che si accinge a raccogliere.
Allora professore, c’è posto per il non profit nelle strategie di Sviluppo Italia?
Certamente si. E per una ragione molto semplice che le spiego subito. È ormai diffusamente riscontrabile come laddove ci siano organizzazioni non profit ci sia anche una significativa vivacità imprenditoriale. Le imprese sociali, cioè, rappresentano una sorta di “fertilizzante” per quelle profit. Esse attestano la capacità dei cittadini di sapersi mettere insieme e dar vita a iniziative economiche finalizzate non solo alla massimizzazione del profitto, ma anche al benessere e della qualità della vita della collettività. Il risultato è una forte coesione e stabilità sociale che, unitamente ad una pubblica amministrazione efficiente, costituiscono le condizioni ideali per attrarre investimenti e favorire insediamenti produttivi. Ecco perché una società civile dinamica ed organizzata rappresenta per noi un fattore strategico di sviluppo.
Molti, però, lamentano proprio una scarsa presenza, o l’assenza, di società civile al Sud. Lei è dello stesso avviso?
Assolutamente no. Il Sud oggi sta vivendo straordinari fermenti culturali ed è pieno di vivacità e voglia di fare, spesso decisamente superiori a quelle del Nord dove, non di rado, si riscontra una certa stanchezza nella volontà di intraprendere e scommettere sul futuro. Nutro perciò profonda fiducia nelle capacità del Mezzogiorno di saper far fronte con successo alle sfide che lo attendono. Naturalmente non ovunque sarà così, si verificherà presumibilmente uno sviluppo “a macchia” che andrà successivamente monitorato, interpretato e messo in rete, perché serva da volano per ulteriori iniziative.
Chi lo farà?
Posto che la collaborazione di tutti gli attori economici e istituzionali locali è assolutamente indispensabile, credo che su questo aspetto Progetto Italia possa dare un rilevante contributo, vista anche la lunga e positiva esperienza maturata nella creazione di imprenditorialità giovanile, con e senza scopo di lucro.
A proposito di imprenditorialità senza scopo di lucro, ritiene che alcune tipologie organizzative non profit si prestino meglio di altre a creare sviluppo e occupazione?
Penso che uno dei punti di forza del Terzo settore sia proprio la varietà delle tipologie organizzative che lo compongono. Quindi, ritengo che ciascuna di loro possa giocare un ruolo importante nei vari settori di intervento, a cominciare da quello dei servizi di pubblica utilità alla persona, oggi foriero di forti opportunità occupazionali e di crescita professionale.
Eppure, c’è ancora chi considera l’erogazione di questi servizi, mansioni a basso contenuto tecnologico e di conoscenza.
Si tratta di una visione quanto mai sbagliata e distorta della realtà. Oggi, infatti, ci vuole una solida preparazione e una formazione continua per svolgere simili compiti. Lo dimostra, peraltro, il proliferare dei corsi di formazione ad hoc. Quanto alla tecnologia, è quasi superfluo sottolineare, per esempio, l’importanza che rivestono gli ausili informatici per facilitare la comunicazione dei disabili o quelli motori per agevolare la deambulazione degli anziani.
Ben venga, dunque, una più capillare diffusione del non profit nel Paese?
Direi proprio di si.
Tre uomini insieme al comando
Istituita con decreto legislativo n. 1 del 9 gennaio 1999, Sviluppo Italia è una società per azioni con un capitale sociale di 35 miliardi di lire interamente detenuto dal ministero del Tesoro. Ad essa fanno capo, tramite le due sub holding, Progetto Italia (amministrata da Carlo Borgomeo) e Investire Italia (da Dario Cossutta), le società a capitale pubblico Itainvest, Ribs, Insud, IG, Spi, Finagra, Ipi. Attraverso il riordino e il coordinamento delle loro attività, Sviluppo Italia si propone di promuovere iniziative finalizzate alla creazione di nuova occupazione e nuova imprenditorialità (preferibilmente giovanile e femminile) su tutto il territorio nazionale, e in particolar modo nel Mezzogiorno. A tal fine sono stati individuati quali settori produttivi strategici, tra gli altri, le biotecnologie, l’aeronautica, l’agroalimentare, il turismo, la moda, l’ambiente, i servizi di pubblica utilità alla persona, l’informazione e la multimedialità. Sviluppo Italia, inoltre, per favorire l’attrazione di investimenti ad alto contenuto tecnologico, promuoverà la realizzazione di centri di ricerca e di parchi scientifici e tecnologici capaci di trasferire cultura d’impresa e dell’innovazione al tessuto socio-economico locale.
E il prestito d’onore vola a quota 54 mila
Un boom. Un vero e proprio boom, quello registrato dal “prestito d’onore” nei suoi primi tre anni di vita. Istituito, infatti, nel 1996 con la legge 608, finora sono state presentate oltre 54 mila domande, di cui 50 mila già valutate e 4.548 ammesse ai finanziamenti, che com’è noto ammontano a 50 milioni di lire (al massimo) per prestito (30 a fondo perduto, 20 a tasso agevolato) più altri 10 per spese di gestione relative al primo anno di attività. Un segnale di ottimismo sulla voglia crescente di impresa che va diffondendosi al Sud e che segue di soli due mesi quelli altrettanto confortanti emersi dall’indagine della Fondazione Corazzin di Venezia sulle nuove tendenze occupazionali dei giovani, secondo la quale il tasso di imprenditorialità giovanile nel Mezzogiorno è ormai al 24% contro il 16% del Centro e l’8% del Nord.
«I primi effetti del prestito d’onore», sostiene Carlo Borgomeo, presidente della società IG incaricata di gestire il prestito, «dovrebbero portare alla creazione di una nuova classe di imprenditori, circa 3.500 persone».
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