L’impresa sociale in campo culturale è come l’araba fenice: appare, si dissolve e ricompare con una certa irregolarità. Dieci anni fa sembrava quasi fatta, grazie all’investimento di importanti organizzazioni di terzo settore che si erano impegnate in un progetto per il quale si può ancora oggi usare, senza sprecarlo, l’aggettivo “innovativo”. Il meccanismo era relativamente semplice: approfondire i processi di imprenditorializzazione nei settori “maturi” (servizi sociali) e studiare i modelli di traferibilità nell’ambito della produzione culturale. Risultati? Oltre l’orizzonte progettuale nulla, nonostante un potenziale già ben presente all’epoca: mestieri creativi in cerca di nuovi “contenitori” giuridico – organizzativi, crescita della consapevolezza rispetto alla necessità di tracciare un confine strategico e operativo per le attività di carattere produttivo a fronte dell’evidente insufficienza dei modelli esistenti, diffusione di network locali, ecc. Dietro il paravento, traballante, dei limiti normativi (la legge 381/91 della cooperazione sociale troppo sbilanciata in senso welfarista) si preferì non dar seguito a quell’esperienza pilota. Ed anche la nuova legge, nonostante lo “sdoganamento” della cultura che viene indicata come uno dei campi di attività delle imprese sociali, non sembra aver scaldato i cuori dei soggetti nonprofit, a causa forse di qualche pregiudizio “culturale”. Eppure sotto la spessa coltre di cenere qualcosa si muove lungo due direzioni. La prima tutta interna al variegato mondo delle organizzazioni culturali, anche se magari in ordine sparso (ma ben venga!), grazie al moltiplicarsi di pubblicazioni e momenti di riflessione e confronto. La seconda direzione, un pò più accidentata nel percorso, vede un progressivo avvicinamento da parte delle imprese sociali “old style” che sempre più producono servizi culturali per realizzare i loro obiettivi di cura, inclusione, socializzazione, inserimento. Che sia la volta buona?
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