Alla quarta edizione ci sono riusciti. Finalmente i dati dell’Osservatorio sulle risorse umane nel non profit realizzato da Sodalitas non si limitano a misurare il solo divario salariale con le posizioni lavorative nelle imprese a scopo di lucro, ma iniziano a considerare l’effetto di variabili non monetarie legate soprattutto alla flessibilità del tempo lavoro. Variabili che costituiscono la parte intangibile della remunerazione che in ambito non profit vale molto, non solo per necessità (essendoci poco spazio per la leva economica) ma anche per virtù. Queste organizzazioni, infatti, ben conoscono il valore degli “intangibles” nel determinare il livello di soddisfazione sul lavoro. Non è solo una questione metodologica, ma culturale. Finché il confronto tra profit e non profit lo si fa guardando al cedolino paga significa, in buona sostanza, non aver compreso la cultura distintiva delle organizzazioni sociali. Ma se nel campo delle risorse umane il riconoscimento delle peculiarità non profit comincia a farsi strada, anche se con molta fatica guardando ad esempio alla recente riforma del lavoro, in altri settori siamo all’anno zero. Un esempio emblematico rigurda il rapporto tra non profit e mondo digitale. Negli ultimi tempi si susseguono gli interventi, a dimostrazione che il tema cresce di rilevanza. Ne parla l’inserto Nova de Il Sole 24 Ore ed è di qualche giorno fa l’uscita di un report tematico. Risultato? Il non profit è in ritardo quanto a utilizzo di risorse web e ICT e una delle cause è da ricercare nel ricambio eccessivamente lento delle posizioni direttive. C’è una parte di verità ma sembra anche di rivedere il film già visto con i divari salariali. Stando a queste interpretazioni basterà affidarsi a un qualche figura emergente di “social media strategist” per rimediare all’assenza di cultura digitale. Sì, ma a proposito dove si alimenta la cultura digitale? E di quale pensiero strategico sono portatori gli “evangelizzatori” del web 2.0? L’impressione è che mentre si discute di riconoscere a internet lo statuto di bene comune, il capitalismo, quello finanziario in particolare, sta marciando a tappe forzate per monopolizzare un settore in grande espansione. E lo fa non solo investendo risorse economiche (ad esempio sulle famose “startup”), ma elaborando modelli e cultura d’impresa – come lo shared value – che sono perfetti per cogliere la parte “social” di questo nuovo business. Meglio quindi approfondire il rapporto in entrambe le direzioni. Perché è vero che molti siti internet di organizzazioni non profit sono proprio brutti. Ma, al contrario, c’è ancora troppo poco non profit nella rete.
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