Il 2011 passerà alla Storia come l’anno delle grandi rivolte, a partire da quella del pane che ha avuto il Nordafrica come epicentro. E l’insoddisfazione, come leggiamo sui giornali, si registra ad ogni latitudine, basti pensare alle violenze che stanno investendo a macchia d’olio il Regno Unito. Ciò che si sta profilando sullo scenario internazionale è un “mondo capovolto” con le vecchie economie Occidentali in crisi nera. E mentre sono in crescita i Paesi emergenti, quelli che hanno puntato sull’economia reale (Cina in primis), è chiaro che siamo di fronte ad una crisi sistemica. Purtroppo la politica europea, caratterizzata da forti contrapposizioni interne, ha avuto la grande responsabilità di aver abdicato di fronte alla volontà degli speculatori finanziari, non vincolando questi signori a regole e controlli. C’è voluto il disastro nelle borse per convincere la Bce ad uscire dal letargo, acquistando titoli di Stato come quelli italiani sul mercato secondario, per scoraggiare la speculazione. Ma il cammino è decisamente ancora tutto in salita. Discutere di un “tetto del debito”, per poi decidere d’innalzarlo, come ha fatto Washington in questi giorni – incassando tra l’altro l’abbassamento del rating di Standard & Poor’s – significa essere fuori dal tempo e dalla storia. Il vero problema è quello di sempre che soprattutto dal 2008 ha penalizzato fortemente la spesa sociale dei governi: l’insostenibilità del divario tra bolla speculativa e la cosiddetta economia reale. E mentre il deficit degli Stati sovrani è andato alle stelle a causa del crollo dell’economia reale e dei salvataggi bancari pagati imponendo tagli sempre più selvaggi, Europa e Stati Uniti ostentano una visione surreale che esiste soltanto per Alice nel Paese delle Meraviglie, in cui il denaro dovrebbe avere un valore, indipendentemente da come viene usato. Ma questa è una concezione puramente monetaristica che poteva valere ai tempi del “Gold Exchange Standard”, quando il termine di riferimento era rappresentato dalla parità oro-dollaro. Sono anni che si parla di riorganizzazione finanziaria mondiale, auspicando una nuova Bretton Woods, capace di riformare un sistema che ha acuito la divaricazione tra ricchi e poveri. Un’indicazione caldeggiata da tanta società civile su scala planetaria, ma rimasta sulla carta, svanendo nel fantomatico contenitore dei G 20. E mentre la bolla dei derivati si aggira intorno a un valore nominale stimato sui 700.000 miliardi di dollari (12-13 volte il Prodotto interno lordo del mondo), nessuno ha ancora il coraggio di sancire una netta demarcazione tra economia reale e finanziaria, per i forti condizionamenti imposti dalle banche d’affari che fanno il bello e il cattivo tempo. A dire il vero, qualcuno ha compreso l’urgenza d’imprimere un cambiamento. Si tratta, per esempio, del ministro dell’Industria del governo britannico, Vincent Cable, il quale è fautore della separazione delle attività bancarie. Naturalmente, l’Alta finanza lo guarda come il fumo negli occhi per questo suo tentativo di voler separare le attività commerciali dal trading finanziario. Ma poi, detto fuori dai denti, perché non tornare a conferire agli Stati il potere non solo di creare il credito, ma anche di battere moneta? La Costituzione degli Usa lo prevede anche se poi questo compito fu trasferito nel 1913 alla Federal Reserve. A chi si oppone a queste misure, potrebbe forse giovare la lettura del recente documento Onu “The global social crisis” sul pericolo di una smisurata, incontrollata e planetaria rivolta sociale prodotta dalla recessione economica irrisolta che di fatto sta già penalizzando fortemente i ceti meno abbienti del pianeta presenti anche in realtà apparentemente sane come Brasile, Cina ed India. In questi Paesi se è vero che il Pil è in crescita, la divaricazione tra i ceti sociali è tale per cui il rischio implosione è sempre in agguato. Ma sarà mai possibile che l’unico indicatore della ricchezza debba essere la crescita della produttività, quando si sa invece che il benessere dipende anche da altre misurazioni, per esempio la qualità della vita? Intanto, in Somalia sono 4 milioni le bocche da sfamare, negli gli Stati Uniti una persona su sette, ovvero 45 milioni di americani, devono ricorrere ai “food stamps” (i buoni pasto) per sopravvivere, e la malnutrizione infantile sta aumentando ad un tasso allarmante. Viviamo in mondo purtroppo in cui la globalizzazione consiste essenzialmente nello scaricare addosso agli altri gli effetti della propria ingordigia, poco importa che si tratti di sfruttare le materie prime nei Paesi africani o speculare finanziariamente in borsa, riducendo al lastrico non solo i piccoli risparmiatori ma anche quelle piccole e medie imprese che rappresentano il volano della cosiddetta economia reale. Ma qualcuno nel vasto areopago del pensiero, ha mai pensato che sarebbe ora di ridurre il rating della Standard & Poor’s di cui sopra, considerando che, come tante altre agenzie d’altronde, è al soldo delle banche d’affari responsabili dei disastri delle borse? Una cosa è certa: l’appello lanciato una decina di giorni fa da Benedetto XVI durante l’Angelus, proprio nel giorno in cui veniva ricordato dalla liturgia il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, è rimasto drammaticamente inascoltato. E dire che il messaggio del Papa era diretto e inequivocabile: “è vietato essere indifferenti davanti alla tragedia degli affamati e degli assetati”. Ecco che allora le tragedie odierne dei profughi in cerca di salvezza o di una sopravvivenza meno miserabile, rappresentano per le nostre coscienze una forte provocazione. Usando il linguaggio dei Padri, una “damnatio memoriae” per non perdere tempo. Dovere delle nazioni civili e responsabili, dovere della democrazia.
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