Ucraina

Cristiani tra resistenza e resa

Dopo l'anticipazione dell'intervista di Papa Francesco alla Tv Svizzera, tanti amici ucraini, autentici credenti, mi hanno scritto con rabbia, con dolore, con sconcerto, con vero disorientamento. Ma la vera domanda che dovremmo farci non è perché il Papa abbia parlato così, ma cosa siamo chiamati a fare noi per un popolo oppresso che non riesce a vedere la fine delle sue sofferenze nonostante le armi di cui lo abbiamo dotato

di Angelo Moretti

Papa Francesco intervistato dalla Televisione svizzera

Come una biglia impazzita in un flipper mediatico, l’anticipazione dell’intervista del Papa alla RSI, intervista rilasciata all’inizio di febbraio, a Lorenzo Buccella per il magazine culturale “Cliché” in una puntata dedicata al bianco, il colore del bene, della luce, è schizzata di chat in chat, in tutte le lingue, da Roma a Kiev, a Washington, a Mosca, a Bruxelles, a Istanbul. La prima impressione ricevuta è che Francesco avesse invitato il popolo oppresso ad alzare la “bandiera bianca” (termine usato dal giornalista in una domanda e ripreso dal Papa), ad arrendersi al male, a farlo prevalere purché quella strage inutile che è la guerra non mietesse altre morti ed altri dolori.

Tanti amici ucraini, autentici credenti, mi hanno scritto con rabbia, con dolore, con sconcerto, con vero disorientamento. Tra il Pontefice ed una parte del suo popolo sembrava ripetersi la scena vissuta a Cesarea di Filippo, quando i discepoli, Pietro in testa, avvertirono Gesù che se avesse continuato ad usare quelle parole forti sulla sofferenza e sulla sua futura sconfitta terrena nessuno la avrebbe più seguito. Lo stesso pontefice che chiede da due anni solidarietà per la martoriata Ucraina, che auspica la realizzazione di un negoziato per una “pace giusta”, ora chiede che l’Ucraina issi la bandiera della resa a prescindere dalle condizioni del negoziato? Ma allora a chi dobbiamo credere, si sono chiesti molti cattolici, a Gesù che ci invita ad essere fedeli al bene per gli altri fino al sacrificio della nostra vita oppure a chi ci chiede di lasciare che la nostra gente sia abbandonata nelle mani delle forze occupanti?

È importante ricordare che il successore di Pietro non ha parlato ex cathedra ma nel corso di un’intervista, non per sottolineare un aspetto “leguleio” della vicenda ma per sottolineare il pathos molto umano del suo discorso: Papa Francesco, con le sua parole appassionate, non ha modificato in nulla il catechismo della Chiesa Cattolica, in cui si dà per legittima e finanche doverosa la resistenza al male e la difesa anche armata dei popoli oppressi, ma ha espresso con sincerità una sua premura pastorale, un suo lamento ed una sua speranza. La speranza del buon pastore è che uno dei due fratelli si arrenda nella lotta, che sia Abele o Caino non conta nella riflessione che ha esposto, e che inizino i dialoghi per la fine delle violenze. Non ha cambiato i paragrafi della Gaudium et Spes, riletta e citata da molti nel week end, sulla difesa e la giusta lotta per la libertà dei popoli dagli oppressori; più che altro, con il suo apparente sconforto, ha implorato che qualcosa di nuovo potesse avvenire presto. La guida suprema della chiesa cattolica romana ha ha citato la Turchia, un popolo a maggioranza islamica, afferente alla Nato ma vera linea di margine tra oriente ed occidente, come possibile facilitatore per i negoziati, quasi a sottolineare la assoluta impotenza della comunità occidentale tout court nel dirimere la vicenda.


La vera domanda che dovrebbero farsi i fedeli di ogni latitudine non è perché il Papa abbia parlato così, ma cosa siamo chiamati a fare noi per un popolo oppresso che non riesce a vedere la fine delle sue sofferenze nonostante le armi di cui lo abbiamo dotato.

Stalin si chiese di quante divisioni disponesse Pio XII per poter avere voce in capitolo nella gestione della pace dopo la seconda guerra mondiale. Qualcuno pensò ad una brutta battuta del dittatore sovietico, altri a vera ignoranza. Alla luce della constatazione circa la debolezza  militare del Vaticano, si volle escludere una voce spirituale nell’organizzazione del nuovo ordine mondiale che, da quel momento in poi, fu affidato formalmente all’Onu e sostanzialmente alla deterrenza atomica. Oggi la domanda dobbiamo porla noi a noi stessi. Di fronte ad un Papa che si dichiara impotente, quante sono le divisioni disarmate che soffrirebbero accanto al popolo oppresso purché non venga lasciato solo? Se la resistenza è giusta e la resa non è una sconfitta, cosa facciamo noi cristiani di Europa tra resistenza e resa degli ucraini?

Due cose sono certe: come europei che come cristiani non possiamo stare a guardare e non basteranno le nostre parole di conforto. Il cristianesimo o è corpo o non è, e se i cristiani credenti non spezzano il pane non sono credibili. Il Papa ci invita a spezzare il pane della sofferenza con Abele. Nelle sue memorie, il Mahatma Gandhi ricordava che, nel suo immaginario da bambino, il cristiano europeo era colui che aveva in una mano un brandy e nell’altra il sigaro. Se non facciamo qualcosa di nuovo, passeremo nell’immaginario dei bambini ucraini, adulti di domani, come quella gente che davanti all’immensa sofferenza del loro popolo si divideva tra divano e tastiera a parlare di pace e di guerra, sventolando bandiere nelle piazze sicure.

Se pensassimo, ad esempio, ad una immensa catena umana che chieda il cessate il fuoco dell’oppressore per le strade dell’Ucraina, tra milioni di europei e di ucraini, insieme, non sarebbe la più grande bandiera pacifista della storia?

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