Disabilità
Crisi neuropsichiatrie, ragazzi ricoverati con gli adulti
Ha fatto clamore il caso, accaduto in Veneto, di un ragazzo di 13 anni ricoverato per più di un mese in un Servizio psichiatrico per adulti. Secondo Cristiana Mazzoni, presidente del Forum italiano diritti autismo, non si tratta di un caso isolato, ma del sintomo di una crisi delle neuropsichiatrie e della presa in carico delle persone disabili
Un minore rinchiuso per un mese e mezzo in un Servizio psichiatrico di diagnosi e cura – Spdc per adulti. È questo l’episodio accaduto a Chioggia e denunciato dal Movimento per la difesa della sanità pubblica veneziana qualche giorno fa. Il ragazzo, un tredicenne autistico e iperattivo con elevato bisogno di assistenza, non ha trovato posto nelle neuropsichiatrie infantili – in tutto in Veneto sarebbero stati attivati soltanto 12 letti disponibili su 60 previsti, nelle aziende ospedaliere dell’università di Padova e di Verona – ed è stato ricoverato nel reparto per maggiorenni; la questione è approdata anche in Parlamento, con due interrogazioni a firma del Partito democratico. L’episodio non sarebbe isolato: Andrea Angelozzi, direttore del Dipartimento di salute mentale delle Ulss di Treviso e Venezia fino al 2019, ha dichiarato a Quotidiano sanità che nel corso della sua carriera ha contato moltissimi casi di questo tipo: quando aveva accesso agli atti è arrivato a contarne circa 200. Questo numero, con l’acuirsi del bisogno di assistenza negli ultimi anni, è sicuramente aumentato. È d’accordo anche Cristiana Mazzoni, presidente del Forum italiano diritti autismo – Fida, che denuncia la situazione in cui versano numerose famiglie, in difficoltà a causa della mancanza di servizi adeguati alle necessità di bambini e ragazzi autistici o disabili.
Mazzoni, qual è la situazione in Italia?
C’è una mancata integrazione sociosanitaria. Purtroppo la legge 328/2000 («Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali», ndr) non è stata applicata; manca un’organizzazione capillare che dia servizi sul territorio e che integri il lavoro che fanno le Aziende sanitarie regionali con i servizi sociali degli enti locali. Il secondo punto è che le neuropsichiatrie sono poche e c’è carenza di personale; questo significa anche che nei grossi centri ci sono lunghissime liste d’attesa per la fase diagnostica. Poi c’è un altro problema, che si aggiunge a questo: la gestione dei casi di acuzie e di post acuzie. Come associazione, lo scorso anno, abbiamo inviato anche un appello alle autorità sulla mancanza di presa in carico; gli spazi sono inadeguati, nelle Spdc per adulti si fanno danni inenarrabili. Come in questo caso. La domanda che mi sorge spontanea è: chi aveva in carico questo ragazzo?
Quindi, possiamo dire che quello di Chioggia non è stato un caso isolato?
Dalla provincia di Torino mi arrivano altre denunce, così come dal Sud. Qui a Roma, nonostante le enormi difficoltà, ci sono cooperative e associazioni che riescono a tamponare delle situazioni di difficoltà, però sono convinta che se questi ragazzi finissero in ospedale non sono convinta che poi le cose andrebbero a buon fine. Anche il Bambin Gesù, per esempio, dove c’è un reparto di psichiatria con posti letto, durante la pandemia era saturo. Sicuramente ci sono pochi posti, ma a monte c’è una mancata presa in carico con un controllo nel tempo; ci sono ragazzi che hanno una diagnosi e possono fare un solo monitoraggio all’anno perché hanno situazioni meno complesse, mentre altri hanno bisogno di essere seguiti in maniera più costante. Poi è necessario guardare anche al contesto familiare. Per questo parlavo di un’integrazione sociosanitaria, che dovrebbe garantire la presenza sul territorio di un presidio medico e sociale efficace.
Quali sono le maggiori criticità che riportano le famiglie?
La gestione è fallimentare praticamente ovunque, tranne in pochissime enclave. C’è uno scollamento molto serio tra gli enti locali e le esigenze dei cittadini con disabilità o comunque con situazioni afferenti alle neuropsichiatrie. C’è un abuso di farmaci proprio perché manca una vera presa in carico
A che età si iniziano a dare farmaci?
L’età minima si è abbassata. Ho avuto segnalazioni di somministrazioni anche a bambini della scuola primaria. Diciamo però che l’esordio delle criticità è principalmente nel periodo dell’adolescenza. Il problema è che sono pochissimi i neuropsichiatri e gli psichiatri in grado di gestire la terapia farmacologica, per cui si rischia che venga somministrato un cocktail di farmaci che fa più danni che altro. Sono arrivate alcune segnalazioni dal Piemonte, dove ci sono alcune associazioni con cui sono in contatto e la situazione è complessa. I bambini e i ragazzi che vanno in meltdown sono gestiti con i medicinali, ma a volte vengono ridotti a zombie proprio per placare tutta la parte di irascibilità, di irritabilità e di iperattività. I disturbi del neurosviluppo vengono considerati di esclusiva pertinenza della neuropsichiatria e della psichiatria, così vengono sottovalutati tutta una serie di problemi metabolici e fisici, anche banalmente l’eccessivo caldo o freddo col cambio delle stagione. Ci sono delle variabili importanti che non vengono minimamente considerate. Se ci fosse una corretta gestione dell’acuzie e del post acuzie si potrebbe dosare la parte farmacologica nella fase acuta, che poi va decrementata e supportata con interventi di tipo educativo o, anche, di tipo organico.
E di questo ragionate all’interno del Forum?
Certo, sono temi che abbiamo trattato con alcune associazioni di recente, anche riguardo all’ampliamento della rete Dama (Disabled advanced medical assistence creata per rispondere alle esigenze di salute delle persone disabili, in ospedale o meno, ndr). In Italia abbiamo sollevato il problema della mancata formazione specifica sull’autismo e sulle co-occorrenze negli studi dello stress autistico con problematiche di tipo organico, che, se prese per tempo e gestite correttamente, potrebbero migliorare la qualità della vita della persona ed evitare tutta una serie di difficoltà.
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