Welfare

Crisi di governance

di Flaviano Zandonai

Ora che il governo (quasi) c’é l’attenzione si può spostare su un altro decisivo versante del governare. Se infatti il governo come istituzione politica é cosa praticamente fatta rimane drammaticamente aperta la questione del governo come processo, ovvero, come dice Tullio De Mauro nel suo bel Dizionarietto di parole del futuro, “modi di regolare la vita sociale ed economica di una comunità, impresa, istituzione“. In una parola: governance.
Il fulcro di questa crisi non è nei palazzi romani. La crisi della governance è più evidente nei territori, nelle pubbliche amministrazioni locali e nelle organizzazioni di terzo settore. Nessuno, o in pochi, vogliono sentire parlare di azioni di governo con finalità gestionali e programmatorie che coinvolgano una pluralità di attori chiamati a esercitare una funzione pubblica. Guai a parlare di “tavoli” di policy making di qualsiasi tipo. La crisi impone scelte rapide e mette a nudo i limiti dei modelli di governance sperimentati negli ultimi anni, anche nel campo del welfare sociale.
Non è stata quindi una grande idea quella di riesumare i Piani sociali di zona della legge 328 di riforma dei servizi sociali in occasione di un seminario al quale mi hanno invitato qualche giorno fa. L’assessore con delega a questo comparto – ed ex esponente del terzo settore – ha messo impietosamente in luce l’inefficacia di questo metodo di governo di fronte a una crisi epocale che mette in discussione l’esistenza stessa del welfare. Una sfida di ben altro livello rispetto al pur nobile tentativo di costruire un “sistema integrato di servizi“. Qui il rischio è di ritrovarsi proprio senza servizi.
Quindi come se ne esce? Le uscite di emergenza più vicine sono due. La prima, sperimentata dal precedente esecutivo nazionale e credo anche da altre amministrazioni locali, è di riaccentrare i processi di governo nelle istituzioni. La seconda via di fuga consiste, rubando l’espressione all’assessore di cui sopra, nel “riposizionare la sussidiarietà a livello dei cittadini”. Sono strategie diverse, ma solo in apparenza. E in ogni caso l’effetto indiretto atteso è il medesimo: far dimagrire le forme di governance allargata viste come eccessivamente lente, inconcludenti, autoreferenziali, forse anche costose. Il rischio però è di buttare il bambino con l’acqua sporca: pur riconoscendo i problemi di burocratizzazione legati alla programmazione sociale è altrettanto vero che nei territori dove c’è stato più coinvolgimento – dunque più governance – le cose non sono andate male, o almeno non peggio. I Piani sono stati adattati in modo proattivo, sono stati costruiti sistemi informativi degni di questo nome e soprattutto si sono costruiti sistemi di gestione dei servizi che se non hanno innovato almeno hanno fatto da “cordone sanitario” del primo welfare cercando poi di agganciarlo, senza farne una zavorra, alla protezione sociale di secondo tipo (welfare aziendale, servizi collaborativi, financo l’autodafè dei singoli cittadini).
Con un ulteriore dettaglio: serve investimento. Come ben dimostra questa interessante azione del governo inglese spalleggiata dal suo think tank preferito: investe 14 milioni di sterline per finanziare azioni innovative di cambiamento sociale proposte direttamente dai cittadini. Non sono moltissimi soldi, se li potrebbe permettere anche un Paese ridotto male come il nostro. Magari grazie a qualche ulteriore dimagramento: quello della pubblica amministrazione, anche quella locale. Chissà che ne pensa l’assessore.

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