Famiglia
Crisi delle nascite: la “colpa” è dei maschi
Stili familiari, culturali e precarietà alla base della flessione della fecondità. Lo rivela una ricerca della Cattolica. E le Acli chiedono politiche per la famiglia
Non è che non vogliono figli, anzi. Ne sognano almeno due. Ma se li ricontatti 10 anni dopo, quando hanno finito gli studi e sono trentenni alle prese con il mondo del lavoro, i ragazzi italiani ammettono che ?realisticamente? sarà dura anche farne solo uno.
E se le donne, che a 35 anni sanno di avere un tempo di fecondità limitato, analizzano la loro situazione con molta oggettività, gli uomini appaiono più attendisti e pronti a rimandare ancora la loro realizzazione familiare. E’ il quadro (sconsolante) della prima ricerca mai pubblicata sulle dinamiche di fecondità maschili, intitolata ?La paternità inceppata – Diventare ed essere padri in Italia?, curata da Alessandro Rosina, professore associato all’Università Cattolica, e Linda Laura Sabbadini, dirigente dell’Istat.
Dei risultati di questa fotografia della fecondità italiana si è discusso ieri, presso l’Ateneo milanese, nell’ambito di una tavola rotonda condotta da Gad Lerner che ha messo a confronto esperti di diversi campi, dalla sociologa Chiara Saraceno, allo psicoterapeuta Fulvio Scaparro, dal demografo Giuseppe Micheli all’economista Francesca Bettio.
Il nodo critico cui giunge la ricerca del professor Rosina è che se la fecondità italiana è in crisi (non più di 1,5 figli per coppia), lo è ancor di più la paternità. ?In nessun altro Paese occidentale?, sottolinea il docente, ?gli uomini aspettano così tanto prima di diventare padri, e in seguito dedicano una quota così bassa del loro tempo ai figli?.
In Italia all’età di 35 anni il doppio degli uomini (20%) rispetto alle donne (10%) è ancora single e senza figli. Tra chi poi è in coppia senza figli e non pensa di avere un figlio nei prossimi tre anni c’è oltre un uomo su tre.
?Se l’atteggiamento sia femminile che maschile è altamente positivo nei confronti della fecondità?, prosegue Rosina, ?Alla prova dei fatti esiste soprattutto una forte posticipazione degli uomini nell’assunzione di responsabilità genitoriali e una maggiore resistenza maschile nei riguardi dell’arrivo del primo figlio?. Ma c’è di più: il ?ritardo? maschile, più accentuato di quello femminile, presenta anche un maggior impatto deprimente sulla fecondità.
Quali le cause di questa dinamica? La ricerca individua tre diversi fattori:
-Economici: La precarietà lavorativa e i bassi salari d’ingresso penalizzano maggiormente, dilazionandola nel tempo, la formazione di una propria famiglia sia sul versante maschile che su quello femminile. ?Se infatti rimane un pre-requisito importante per il matrimonio il possedere un lavoro da parte di entrambi?, spiega il docente, ?resta però la tradizionale maggiore importanza assegnata alla stabilità e buona remunerazione del lavoro di lui. Le difficoltà di conciliazione tra occupazione femminile e figli impongono inoltre che sia l’uomo a investire maggiormente nel lavoro?.
-Culturali: Esiste una maggiore accondiscendenza da parte dei genitori italiani verso una protratta permanenza a casa dei figli maschi rispetto alle femmine.
?I giovani uomini?, dice Rosina, ?Continuano a godere nella famiglia d’origine di maggiori risorse e più ampia libertà di quanto non sia invece per le coetanee?.
-Biologici: L’orologio biologico femminile impone alle donne un preciso limite del periodo fecondo della vita. Per gli uomini, invece, la decisione di un figlio può essere rimandata sine die. ?Tanto che appena passati i 40 anni?, dice Rosina, ?più di un uomo su quattro è ancora senza figli, ma la netta maggioranza (60%) di costoro intende averne in futuro?.
Sullo stesso tema, sempre ieri, le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani hanno pubblicato una ricerca demoscopica intitolata “Tra ideali e necessità. Gli italiani alla riscoperta della paternità”.
L’indagine costituisce il rapporto nazionale di un progetto di ricerca europeo che verrà presentato a Bruxelles dall’Iref, l’Istituto di ricerca delle Acli, il prossimo 30 marzo. Il progetto, chiamato T.I.R. (Two Images in Recostruction: Paternity and Maternity), finanziato dalla Commissione Europea, coinvolge, oltre l’Italia, anche la Grecia, l’Olanda, la Svezia e la Repubblica Ceca.
In ogni Paese sono stati intervistati 1000 uomini e sono state ascoltate associazioni di padri, familiari, per le pari opportunità, esperti e studiosi del settore. L’obiettivo: mettere in luce e confrontare gli stereotipi sulla paternità/maternità ancora presenti in Europa, promuovere una paternità più consapevole e responsabile, volta al raggiungimento di una maggiore parità tra uomini e donne.
Perché si fanno pochi figli? A causa della sostanziale inadeguatezza delle politiche familiari, dicono gli intervistati (35%), che si manifesta nella carenza di servizi per l’infanzia che consentano ai genitori di conciliare tempi di vita e di lavoro (22%); e nel disinteresse dei politici verso i fabbisogni delle famiglie (13%).
Giudicata decisiva anche la “perdita dei valori tradizionali della famiglia” (27%) e la tendenza a procrastinare l’appuntamento con la paternità/maternità dovuta alla “maggiore consapevolezza dei futuri genitori” (18%). Una risposta importante può dunque arrivare dalle politiche sociali volte ad agevolare il compito dei genitori. Gli uomini intervistati chiedono un maggior sostegno economico alle famiglie (35%), incentivi alle imprese perché diano maggiori servizi alle coppie con figli (22%), una politica di adeguamento degli orari di lavoro alle esigenze familiari (21%).
«E’ tempo di una riflessione seria sul tema della famiglia e delle sue necessità – ha affermato il presidente nazionale delle Acli Andrea Olivero – Dobbiamo interrogarci su come fare in modo che la famiglia abbia l’attenzione, il ruolo, le condizioni perché possa svolgere le sue funzioni di prima cellula comunitaria, di luogo in cui si esercitano le attività primarie della cura, della cura, della solidarietà e dell’amore?.
?Auspichiamo provvedimenti strutturali?, ha proseguito Olivero, ?che abbiano carattere universale, che leggano le famiglie non solo come destinatarie di provvidenze, ma che le inseriscano nella progettazione e nella gestione dei servizi ad esse dedicati, con una rivalutazione della componente dei servizi offerti dalle istituzioni e dal privato sociale rispetto ai soli aiuti economici e monetari. Provvedimenti che abbiano anche presente – vogliamo dirlo – l’esigenza che il modello familiare di riferimento sia quello basato sul dettato costituzionale».
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