Venezia 2024

Crescere nonostante gli adulti

A diciotto anni sei fuori dalla comunità. "ll mio compleanno" è l'opera prima di Christian Filippi ed è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Il film è nato da un laboratorio di scrittura con i ragazzi di una comunità per minori e questo dà credibilità alla storia

di Stefano Laffi

«Il progetto educativo è il vostro, non il mio!»: spiega così la sua rabbia Riccardo, alle soglie dei 18 anni, nel film ll mio compleanno, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Lui “non ci sta più dentro”, nel vero senso della parola: vive in una casa-famiglia alle porte di Roma e se ne vuole andare. “Mi avete chiuso qua dentro”, dice sentendosi in gabbia. La sua prospettiva è chiara ed è quella tipica dei ragazzi nella sua condizione, che si trovano in situazioni mai scelte, per altro nel pieno delle energie fisiche e mentali, quindi capaci di gesti estremi. 

Lui vuole tornare dalla madre, da cui è stato allontanato perché lei ha avuto problemi psichiatrici. Lei però è anche l’unica persona che gli è rimasta: del padre non c’è traccia, il nonno le sue tracce le farà perdere poi. Per una generazione che non ha più riti di passaggio, qui invece i 18 anni fanno la differenza, perché chi è in comunità perde in quella data il diritto ad essere accolto e seguito. O sei già grande o lo diventi.


Cosa succeda “dopo” è giusto lasciarlo alla visione del film, che è l’opera prima di Christian Filippi, romano, 32 anni, fino ad oggi autore di cortometraggi. Che il “sociale” sia materiale incandescente per il cinema lo sapevamo, ma come mai questo film su una casa famiglia? Filippi nel 2018 tiene dei laboratori di narrazione in alcune comunità, raccoglie le storie dai ragazzi e dagli operatori, ne capisce il potenziale, approfondisce, candida la proposta del film alla Biennale College legata alla Mostra del Cinema di Venezia. La Biennale ci crede e ne finanzia con 200mila euro la realizzazione. Sono più di 40 le opere prime che in 12 anni Biennale College ha fatto nascere, teniamo presente anche queste piste per dare visibilità e riconoscimento al lavoro sociale.

Il materiale biografico di prima mano dà potenza e credibilità alla storia, che non è il ritratto di uno degli ospiti incontrati dal regista, ma una combinazione delle tante vicende ascoltate. Filippi sta però molto addosso al protagonista, sceglie come paesaggio la sua faccia – interpretato da Zackari Delmas – faccia che funziona per i suoi tratti taglienti, la rabbia implosa ed esplosa, l’ossessiva ricerca di sigarette condivisa coi suoi compagni, lo sguardo da animale braccato o pronto a scappare. Il film è anche un ritratto della vita in comunità, coi suoi rituali come il pranzo con preghiera, coi suoi interni un po’ tristi, con la noia e i silenzi pesanti, col divieto di uso del cellulare, col famoso teorema della “giusta distanza” fra chi educa e chi è educato, con le confidenze inconfessabili fra educatori – identiche a quelle fra ospiti – “non vorrai mica morire qui dentro?”. 

Riccardo si rivela senza volerlo l’emblema di un mondo in cui gli adulti non ce l’hanno fatta, in cui si cresce nonostante gli adulti e non grazie a loro. Filippi però i ragazzi li conosce e li ha conosciuti, scommette su una Roma un po’ cinica ma anche capace di sorridere sulla fatica di crescere. Così Riccardo e suoi compagni di comunità sanno anche essere “solo” dei ragazzi: sanno prendere l’aria cupa della casa e improvvisamente incendiarla di rabbia e di risse ma anche di un’inattesa voglia di ridere e giocare.

C’è una scena che vale il film: Riccardo il ribelle scatena un ballo con tutti, su un brano potente dei Meganoidi, che curano la colonna sonora. Per un minuto si cancella la tristezza dalle facce di ospiti ed educatrice e finalmente compare la felicità possibile.

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