La presente crisi offre agli enti d’erogazione, accanto ai continui e pressanti tentativi di strumentalizzazione da chi si illude di poter sostituire la riduzione dei trasferimenti pubblici con le risorse provenienti dalla filantropia privata, anche una opportunità unica di offrire un proprio qualificato contributo nella creazione di quella società solidale che è l’unica alternativa possibile allo stato sociale. Naturalmente per cogliere tale opportunità non è sufficiente erogare con coscienza e con rigore le proprie limitate risorse, ma, da un lato, bisogna individuare modalità per sfruttare al meglio tutte le potenzialità di cui si dispone, dall’altro, dotarsi di una strategia che permetta di trasformarle in un lievito capace di rivitalizzare le nostre comunità.
Non sempre, gli stessi enti d’erogazione sono consapevoli come, accanto alle disponibilità che vengono distribuite in finanziamenti, essi abbiamo a disposizione altre risorse che possono utilizzare per meglio perseguire i loro scopi istituzionali e nel contempo superare quella sindrome da bancomat che spesso li opprime. La diffusione della riflessione su come utilizzare il proprio patrimonio, non solo per generare reddito, ma anche per conseguire obiettivi direttamente funzionali alla realizzazione della propria missione è una dimostrazione di come la crisi possa aguzzare l’ingegno, così da individuare nuove modalità per sfruttare le proprie potenzialità.
Gli enti d’erogazione e, in particolare le fondazioni di comunità, hanno a disposizione una conoscenza spesso unica degli enti non profit che operano nel loro territorio, delle relazioni con le amministrazioni pubbliche, le imprese, i donatori, i media e la capacità di gestire in modo efficiente e trasparente donazioni finalizzate. Se a ciò si aggiunge la loro neutralità e indipendenza, apparirà evidente come esse possano svolgere un ruolo che gli americani chiamerebbero di leadership, ma che forse potremmo meglio definire di facilitatori, nel creare le condizioni affinché si possa pienamente sviluppare quella welfare community che non basta invocare perché possa svilupparsi. La sussidiarietà e la solidarietà non dipendono esclusivamente dalla buona volontà dei singoli cittadini, ma per manifestarsi hanno infatti bisogno di un’infrastruttura istituzionale di cui però la nostra società è oggi sostanzialmente sprovvista.
Contemporaneamente è necessario rivedere le modalità operative fino ad oggi seguite e chiedersi se il mero finanziamento di singoli progetti non si sia dimostrato inadeguato. La ricerca di progetti innovativi e replicabili non sta dando, in molti casi, i risultati sperati. Innanzitutto perché è spesso difficile individuare i soggetti disposti a mobilitare le risorse necessarie a replicarli, poi perché, soprattutto in un settore come quello sociale in cui le relazioni sono spesso più importanti delle procedure, il successo di un progetto può dipendere da elementi per definizione non replicabili in quanto dipendenti dalle caratteristiche specifiche delle persone coinvolte, infine perché, se l’iniziativa non si inserisce in una strategia più ampia in grado di coinvolgere una pluralità di soggetti, rischia di avere un impatto molto limitato che poco contribuisce a migliorare le condizioni delle nostre comunità.
A tal proposito può essere interessante notare come alcune fra le iniziative che hanno avuto un maggiore impatto come, per esempio, la Global alliance for Improved Nutrition (GAIN) piuttosto che Communities That Care, non hanno conseguito i loro risultati grazie all’implementazione di nuovi progetti o dall’applicazione in più ampi contesti delle metodologie operative che contraddistinguono nonprofit particolarmente performanti. Spesso questi risultati estremamente positivi nascono da un approccio che si chiama impatto collettivo e che ha come fine quello di superare una frammentazione che spesso vanifica quanto di positivo viene sviluppato.
Come suggerisce il nome, l’obiettivo che si pone l’impatto collettivo è quello di generare un’ampia coalizione di soggetti che, senza rinunciare alla propria identità e autonomia, condividano una cornice di riferimento che permetta loro di operare in modo più efficace, sfruttando al massimo le possibili sinergie. In pratica si tratta di costruire quelle reti che, invocate da tutti, è spesso difficile generare, nella consapevolezza che, senza la creazione, spesso lunga e laboriosa, di relazioni umane fondate sulla fiducia e il rispetto reciproco, gli incentivi economici finiscono in molti casi per generare rapporti fittizi il cui unico fine è quello di ottenere il contributo.
L’impatto collettivo, pur senza essere un modello in qualche modo applicabile meccanicamente, non è però una mera esortazione a lavorare insieme, ma una ben definita metodologia che presuppone:
- l’elaborazione di un’agenda comune in cui tutti i partecipanti condividano visione e missione;
- l’individuazione di indicatori condivisi;
- il coordinamento delle varie attività così che queste possano rinforzarsi mutualmente;
- una comunicazione continua fra i partecipanti e la comunità nel suo complesso;
- l’esistenza di una struttura di supporto che garantisca le condizioni per la collaborazione.
Benché si tratti di un approccio sviluppato e formalizzato solo recentemente, esso già ha suscitato un notevole interesse soprattutto negli Stati Uniti dove il progetto Strive, volto a favorire lo sviluppo giovanile “dalla culla alla carriera” ha già dato dei risultati molto positivi tanto che la Fondazione di Comunità di Cincinnati, la città dove questa iniziativa è stata originariamente sviluppata, ha deciso di partecipare a sei iniziative di questo tipo. Esso ha anche suscitato l’interesse del Council for Community Solutions costituito lo scorso anno dalla Casa Bianca per individuare le modalità più efficaci per dare una risposta ai gravi problemi sociali che tormentano quel Paese ed un recente rapporto indica come potrebbe rivelarsi uno strumento efficace per cercare di dare una risposta ai problemi che affliggono ciò che gli americani chiamano “opportunity youth” ossia quei giovani che fanno fatica a concludere gli studi e ad integrarsi nel mondo del lavoro. Tutto questo interesse ne ha favorito la diffusione in altri territori, spesso con il coinvolgimento delle fondazioni ed in particolare delle fondazioni di comunità, come a Grand Rapids in Michigan, dove è in corso un’iniziativa di impatto collettivo dedicata ai bambini e a loro famiglie.
In Italia, la Fondazione provinciale della comunità comasca ha deciso di iniziare un percorso che permetta di sperimentare questa metodologia testandone la sua adattabilità alle specifiche caratteristiche della nostra società. Partendo da un’emergenza concreta: la decisione del comune di Como di tagliare del 40% il contributo che erogava a favore degli enti che si occupano di servizi diurni per i bambini che si trovano in difficoltà, è stata promossa una coalizione fra una dozzina di organizzazioni con l’obiettivo di dar vita ad un progetto che li coinvolga tutti, sensibilizzare la collettività, anche attraverso una campagna di raccolta fondi condivisa, porre le basi per coalizzare un sempre crescente numero di soggetti, pubblici e privati, profit e non profit, così da dar vita, attraverso un processo che potremmo chiamare a palla di neve, ad un’iniziativa di impatto collettivo finalizzata a sviluppare un visione complessiva del welfare di comunità nel territorio.
La speranza è che questa iniziativa possa generare risultati più interessanti rispetto ai tanti tavoli e coordinamenti che contraddistinguono il nostro Paese e che non sempre si rivelano molto efficaci. Il fatto che a promuovere l’iniziativa ci sia un ente, la fondazione senza una propria agenda, se non quella di aiutare gli enti ad elaborare la loro soluzione e che la logica della rappresentanza, con i suoi effetti paralizzanti, sia stata completamente subordinata alle esigenze operative, sta creando le condizioni per sviluppare quella fiducia reciproca senza la quale ogni iniziativa di questo genere è destinata al fallimento. Se a tutto ciò si aggiunge l’autorevolezza e la capacità da parte della fondazione di svolgere un ruolo di allenatore che è in grado di costringere gli enti a fare ciò che essi stessi considerano corretto, ma che non sempre hanno la forza di implementare, apparirà evidente come questo approccio abbia le potenzialità per conseguire i risultati desiderati, pur nei limiti di una sperimentazione in cui è inevitabile fare degli errori e testare approcci che non sempre funzioneranno.
Creare un nuovo welfare di comunità è la vera sfida che ci attende. Solo una comunità coesa e solidale può generare quel capitale sociale di cui sia il pubblico, che il mercato hanno un così evidente bisogno. Gli enti d’erogazione possono sfruttare le loro potenzialità per dare un contributo importante, ma è necessario elaborare una nuova prospettiva. L’impatto collettiva potrebbe essere una strada.
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